LUCI AZZURRE

Le luci azzurre

Un vecchio aeroplano che passa.  Dev’essere vecchio poiché ha i motori a pistone e pare sempre fermo sopra i tetti.

Un ricordo improvviso: morte del padrone di casa a nome Luigi, di anni ottanta, ucciso da un aeroplano. Era un vecchietto di media statura, con i capelli bianchissimi, le mani rosee, un faccino roseo, la dentiera, gli occhiali, e una giacca azzurra di pigiama. Io ero un ragazzo e abitavo in pensione a casa sua, insieme ad un compagno di scuola: c’era la guerra, ogni giorno c’era la minestra di ceci, due uova fritte, una mela, e infine il padrone di casa ci spiegava che stavamo vincendo la guerra:

«Gli italiani conquistano Alessandria, i tedeschi scendono dalle montagne del Caucaso e gli inglesi restano accerchiati. Basta conquistare il petrolio!».

Aveva una moglie grassa, bassa, ottantenne anche lei, quasi calva, con una faccia piena di porri e la pelle delle guance penzoloni. Tutti e due avevano una figlia di cinquant’anni, alta, bianca, un poco vecchia, con i capelli tinti di nero, un grande seno floscio, tutta un poco floscia. Ogni pomeriggio si tingeva le labbra con il rossetto, si metteva la cipria e sedeva in silenzio dietro al balcone, con la fronte poggiata al vetro. Era quasi vecchia ed era vergine, si chiamava Elisa.

E così veniva lentamente il crepuscolo; la nostra casa era sulla facciata alta del lungomare, e si vedeva il porto deserto di Siracusa, gli idrovolanti neri dell’aviazione tedesca, i treni della stazione, le colline dell’Anapo.

La signorina Elisa, con la fronte poggiata al vetro, stava in silenzio a guardare il mare, e la sera scendeva lentamente: tutto scompariva nel buio e restavano solo alcune luci azzurre, chissà in quali finestre o strade. Ogni sera alle otto Elisa preparava il caffè di orzo.

Ortigia, l’ingresso al porto di Siracusa
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Ecco le immagini: le luci azzurre, il rumore di un vecchio aeroplano, l’odore del caffè di orzo, le carte del poker, la morte del vecchio padrone di casa.

Una volta ebbi la febbre e mi venne il delirio, smaniavo, ero tutto nudo in mezzo al letto e il mio compagno che era un po’ carogna, chiamò la signorina Elisa per farsi aiutare, venne poi anche la vecchia spaventata, avvolta in uno scialle, cercava di placarmi e di mettermi addosso una coperta, e intanto guardava la figlia: «Tu vattene, vattene! ».  Elisa diceva: «Poverino, sta bruciando di febbre … ».   E la vecchia mi rimboccava ansimando la coperta: «Ma tu che fa, lo hai toccato … ? ».

Febbraio, i dragamine che uscivano in fila al tramonto, i marciapiedi deserti del lungomare.

Marzo, la pioggia che cadeva sul porto, sull’acqua grigia.

Aprile, il vento che sbatteva sulle case bianche della città, il sole che scendeva sul mare e sfondava le finestre, tutta la stanza diventava gialla e lucente, il padrone di casa usciva a piccoli passi per andare due ore al circolo: cappotto nero, le ghette, il cappello grigio, gli occhiali, il bastone, e passando dinanzi alla stanza si toglieva silenziosamente il cappello per salutare.

Il mio compagno di scuola mi aveva insegnato a giocare a poker, ogni pomeriggio veniva anche un altro compagno più vecchio, si chiamava Alfredo, era grasso, con le guance gonfie, i capelli lisci con i ricciolini al centro del cranio, due grandi baffi biondi che gli uscivano quasi dalle narici e gli calavano dentro la bocca. Aveva le unghie lunghissime, le dita gialle di nicotina, un cappotto di pelo di cammello e portava cravatte rosse o gialle. Giocavamo a poker senza gli otto, ogni colpo si chiudevano scale e full, Alfredo ci vinceva i soldi e poi ce li prestava perché ci potessimo comperare le sigarette. Le carte da gioco gettate sul tavolo, i mozziconi delle sigarette, il mio compagno di stanza basso, tarchiato, sfottente, con la grossa testa, i piccoli occhi, i capelli lisci. Alfredo con gli occhi rossi di fumo, immobile, a guardare le carte, con la lingua si scostava i peli dei baffi dalle labbra.

Maggio, un treno di soldati che partiva dalla stazione con le scritte di gesso sui vagoni, l’acqua del porto verde e immobile, le lezioni private di greco, manca poco alla morte del vecchio padrone di casa, da qualche parte ci deve essere un piccolo aeroplano bianco col muso rosso.

Il professore di greco abitava in una traversa della piazza Duomo, una stradina piccola che scendeva di colpo come una scalinata e affondava dentro un palazzo. Io aspettavo nel salotto, con i libri sulle ginocchia, finchè veniva a chiamarmi la figlia del professore, minuscola, con i capelli grigi, tristissima, camminava adagio adagio, strisciando sui pattini di feltro.

Il professore era vecchissimo, alto, magro, calvo, collerico, fumava mezza sigaretta alla volta, la tagliava esattamente in due con una lametta di rasoio e la infilava in un bocchino di sughero. Aveva un nome dolcissimo: Clementino. Così maggio stava per finire.

Era stato un lunghissimo pomeriggio bianco, c’erano tre piccoli idrovolanti candidi in fondo al porto, noi giocavamo a poker e la signorina Elisa si mise il rossetto e la cipria, andò dietro il balcone, con le mani in grembo, la testa poggiata ai vetri, e cominciò a guardare il mare deserto. Il vecchio padrone di casa rincasò un’ora prima del tramonto, si mise le pantofole, la giacca del pigiama e andò dietro i vetri dell’altro balcone a guardare anch’egli il mare.                                           Io avevo un full di kappa seguito da due assi. In quel momento, da qualche parte sul mare, apparvero due piccoli aeroplani bianchi, col muso rosso, correndo quasi sulle onde, improvvisamente si sentì il fragore ed essi sbucarono come due piccoli lampi sui tetti delle case. Contemporaneamente cominciarono a sparare tutte le mitragliatrici dai dragamine e dal molo vicino alla stazione. Ci alzammo, caddero a terra i soldi, il mio full di kappa, le sigarette accese, e corremmo nella stanza accanto.

«Là, là!» gridava il vecchio Luigi con il dito contro i vetri, e vedemmo proprio in faccia al balcone quei due piccoli aeroplani bianchi che s’inclinavano da una parte e dall’altra in mezzo alle righe gialle dei proiettili e tornavano verso la facciata del lungomare, si vedevano le piccole fiamme delle mitragliatrici lungo il bordo delle ali, le minuscole teste dei piloti. Due idrovolanti cominciarono a bruciare di colpo in mezzo al mare e nello stesso istante, mentre passava sul nostro tetto, uno degli aeroplani fece una vampa e un lunghissimo filo di fumo per tutto il cielo.                                                                                                                                 « Cade, cade! » gridò il vecchio padrone di casa.

 Corremmo fuori e, in tutte le strade, i vicoli, sbucava la gente, correndo dietro quel sottilissimo filo di fumo in cielo, finchè arrivammo dall’altra parte della città, l’altra riva del mare, e si vedeva solo in mezzo all’acqua, ad un chilometro, una piccola chiazza scura. Di nuovo tornammo di corsa verso casa per vedere bruciare quei due idrovolanti nel porto.

Da qualche parte nella casa però si sentivano grida, non si capiva nemmeno se stessero ridendo o se piangessero, d’un tratto la signorina Elisa apparve sull’uscio chiamandoci con un lamento, e dietro di lei vedemmo il vecchio padrone di casa disteso di sghimbescio sul letto, completamente nudo, con la testa bianca che gli penzolava, e due donne che cercavano di infilargli un paio di pantaloni. Era morto.

Il mio compagno accorse ed aiutò a vestirlo con l’abito nero a righe, gli infilò le calze e le scarpe, gli ravviò i capelli, ogni tanto tornava nella nostra stanza e si piegava in due dalle risa:                                                         «Hai capito? Appena l’aeroplano ha puntato verso il balcone, lui è morto! La paura … ».

Era rimasto poggiato ai vetri con gli occhi aperti, poi mentre tutti correvano e sbattevano le porte, era caduto lentamente a pancia all’aria sul pavimento. Ridemmo tutta la notte.

Ogni volta che passa un vecchio aeroplano ad elica, questo ricordo: l’odore del caffè d’orzo, le carte del poker gettate su un tavolo, la signorina Elisa con i capelli tinti di nero, la fronte poggiata ai vetri, che guarda il mare deserto. Le piccole lampadine azzurre dell’adolescenza che affondano nel buio ….