i Siciliani, perché
I SICILIANI
in edicola dal gennaio 1983, le pubblicazioni continuarono dopo la morte di Giuseppe Fava sino al 1985.
L’impegno giornalistico delle sue battaglie civili fu continuato dalla redazione de “I Siciliani nuovi”
Gennaio 1983
I Siciliani vengono avanti nel grande spazio della informazione e della cultura, nel momento preciso in cui il problema del Meridione è diventato finalmente, anzi storicamente, il problema dell’intera Nazione. Lo spaventoso lampo di violenza, che una dopo l’altra, ha reciso la vita di uomini (Mattarella, Costa, Pio La Torre, Dalla Chiesa) al vertice della società, ha drammaticamente rappresentato e spiegato la dimensione della mafia e della sua immane potenza. Ma questo lampo ha svelato una verità più alta e tragica: la mafia è dovunque, in tutta la società italiana, a Palermo e Catania, come a Milano, Napoli o Roma, annidata in tutte le strutture come un inguaribile cancro, per cui l’ordine di uccidere Dalla Chiesa può essere partito da un piccolo bunker mafioso di Catania, o da una delle imperscrutabili stanze politiche della capitale.
E dietro la mafia, quel lampo sanguinoso ha fatto intravedere altri problemi immensi che per decenni sono stati considerati soltanto tragedie meridionali, cioè, secolari, inamovibili, distaccate dal corpo vivo della Nazione e di cui semmai il Paese pagava il prezzo di una convivenza, e che invece appartengono drammaticamente a tutti gli italiani, costretti a sopportarne il danno, spesso il dolore, talvolta la disperazione.
Il mortale inquinamento del territorio di Priolo, per cui migliaia di esseri umani sono stati condannati a vivere, otto, dieci anni di meno di quanto non potrebbero se vivessero altrove; la base dei missili atomici a Comiso, contro la quale, a cinquemila, sei mila chilometri di distanza, sono perfettamente puntate altre testate nucleari: entro i primi tre o quattro minuti dallo scoppio di un conflitto, mezza Sicilia e due milioni di esseri umani sparirebbero nella folgore atomica; la ferocia dilagante della camorra che, subalterna e alleata della mafia, sta putrefacendo per sempre la grande anima napoletana; l’emigrazione meridionale al Nord, che dapprima è stata soprattutto speculazione del grande capitale sulla povertà, ignoranza, disponibilità di centinaia di migliaia di infelici, ed ora nei giorni della grande recessione s’è trasformata in una grande piaga sanguinosa che assedia le grandi città settentrionali: questi problemi che la Nazione conosceva e che però si rifiutò di riconoscere come suoi, sono apparsi nel lampo tragico di questi ultimi mesi. Tutto quello che accade a Milano, Roma, Venezia, Torino, nel bene e nel male, appartiene anche ai meridionali, ai siciliani. Quello che accade nel Meridione e in Sicilia, il bene e il male, la paura, il dolore, la povertà, la violenza, la bellezza, la cultura, la speranza, i sogni, appartiene a tutta la Nazione.
I Siciliani giornale di inchieste in tutti i campi della società: politica, attualità, sport, spettacolo, costume, arte, vuole essere appunto il documento critico di una realtà meridionale che profondamente, nel bene e nel male, appartiene a tutti gli italiani. Un giornale che ogni mese sarà anche un libro da custodire.
Libro della storia che noi viviamo. Scritto giorno per giorno.
I QUATTRO CAVALIERI DELL’APOCALISSE MAFIOSA
I quattro cavalieri
dell’apocalisse mafiosa
da “I Siciliani”, gennaio 1983
Per parlare dei cavalieri di Catania e capire cosa essi effettivamente siano, protagonisti, comparse o semplicemente innocui e spaventati spettatori della grande tragedia mafiosa che sta facendo vacillare la Nazione, bisogna prima avere perfettamente chiara la struttura della mafia negli anni ottanta, nei suoi tre livelli: gli uccisori, i pensatori, i politici. E per meglio intendere tutto bisogna prima capire ed identificare le prede della mafia nel nostro tempo. Una breve storia, terribile e però mai annoiante, poiché continuamente vedremo balzare innanzi, come su un’immensa ribalta, tutti i personaggi. Ognuno a recitare se stesso (Pirandello è qui di casa) nel gioco delle parti.
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Negli anni ottanta le prede della mafia si dividono in due categorie perfettamente separate che trovano punti di contatto soltanto in alcune fatali complicità organizzative. L’una categoria raggruppa tutte le tradizionali vocazioni criminali volte al taglieggiamento dell’economia, i cosiddetti “racket”, che controllano quasi tutte le attività economiche di una grande città: i mercati generali; le concessionarie di prodotti industriali, auto, elettrodomestici, televisori; negozi, teatri, alberghi, night; e su ogni attività impongono una taglia, una specie di tassa che l’operatore economico è costretto a pagare se non vuole correre il rischio di veder bruciare la propria azienda, o vedersi sciancato da alcune revolverate. In taluni casi d’essere ucciso.
Si tratta di un giro di centinaia o migliaia di miliardi, però frantumati e dispersi in un’infinità di rivoli e canali. Un apparato mafioso che lentamente, inesorabilmente ha risalito la penisola, inquinando anche le grandi città del nord, oramai da anni anch’esse violentate da sparatorie, stragi, violenze dalle quali emergono sempre volti e nomi di criminali emigrati dalla Sicilia, da Napoli, dalla Calabria. E’ la mafia cosiddetta dei manovali, senza vertici, continuamente sconvolta da una battaglia interna per il predominio in un quartiere o un settore.
Basta che un racket tenti di invadere il territorio di un altro, o cerchi di imporre estorsioni in un diverso settore economico, e lo scontro è fatale. Sempre mortale. Dura sei mesi, un anno, una fiamma di odio che insanguina un quartiere, a volte percorre anche il territorio della nazione da una grande città all’altra, Catania, Napoli, Milano, Torino laddove i racket in lotta cercano disperatamente alleanze e armi, spesso tra consanguinei, amici, parenti, fratelli. Una caratteristica di questa mafia è infatti la presenza costante della famiglia, cioè il rapporto di parentela fra molti membri dello stesso clan. Un giudice milanese ebbe a dire, forse senza nemmeno voler essere cinico: «Una buona famiglia meridionale all’antica, in cui sono ancora molto forti i sentimenti tradizionali della famiglia, può costruire un racket mafioso di tutto rispetto. E’ più temuta!». Questo spiega anche talune agghiaccianti efferatezze dello scontro, vittime legate piedi e collo con un filo elettrico in modo che lo sventurato lentamente si autostrangoli, organi genitali resecati e infilati in bocca, teste mozzate e depositate dinnanzi all’uscio di casa. Una crudeltà che scaturisce dall’odio definitivo di chi ha visto cadere per mano avversa il padre, il figlio, il fratello. Lo scontro non ha possibilità di pace, di armistizio, nemmeno di compromesso e spesso dura mortalmente fino al fatale annientamento del clan avverso, dovunque abbia trovato scampo lo sconfitto o il superstite. La vendetta lo perseguiterà fino nella più profonda cella di carcere.
E’ la mafia che miete la quasi totalità delle vittime, centinaia, forse migliaia ogni anno in tutte le città della Sicilia e dell’Italia. Quasi tutte le vittime sono anch’esse creature criminali, o loro complici, talvolta anche avvocati, medici, funzionari, insospettabili burocrati o professionisti che in un modo o nell’altro si sono lasciati adescare e sottomettere da un racket mafioso. Al momento in cui quel racket entra in guerra cadono anche le loro teste. E’ una mafia che sembra animata da una tragica vocazione al suicidio e tuttavia continuamente si rinnova, una specie di fetido tenia oramai intanato nel ventre della Nazione, dove si ingrassa, ininterrottamente divora se stesso e ricresce. Sociologicamente sarebbe forse più esatto definirlo gangsterismo ma, come ora vedremo, esso è però, mortalmente, indissolubilmente legato, proprio in un rapporto fra manovalanza e ingegneria, al grande fenomeno mafioso.
E qui c’è il salto di qualità, diremmo di cultura criminale, fra le prede mafiose tradizionali di base, mercati, estorsioni, sequestri di persona e le nuove grandi prede che caratterizzano gli anni ottanta ed hanno fatto della mafia una autentica tragedia politica nazionale. Esse sono essenzialmente due: il denaro pubblico e la droga. Il distacco è vertiginoso. E’ come se un grande corpo, un grande animale, lo stato italiano, mai morto e continuamente in agonia, fosse divorato ancora da vivo.
In basso c’è un brulicare orrendo di vermi insanguinati, in alto un rapace con il profilo misterioso e terribile dei mostri di Bosch, e gli artigli piantati nel cuore della vittima. Non riesco a trovare un paragone più amabile ed egualmente preciso.
La droga anzitutto. essa costituisce uno degli affari mondiali, come il petrolio o il mercato delle armi. La valutazione globale degli interessi che la droga coinvolge si può fare solo nell’ordine di decine di migliaia di miliardi. La contaminazione del vizio oramai è intercontinentale, dall’Asia all’Africa, dall’Europa alle due Americhe. I guadagni sono incalcolabili.Si calcola che ci siano al mondo circa cento milioni di persone, molte ormai tossicodipendenti, che fanno quotidianamente uso della droga, spendendo ciascuno in media (ma la valutazione forse è troppo esigua) circa diecimila lire al giorno. Sono mille miliardi. Quasi quattrocentomila miliardi all’anno. Una cifra che fa paura. Molto più alta del bilancio di una grande nazione industriale. I guadagni sono anch’essi incalcolabili. Secondo gli studi attuali un quantitativo di cocaina, acquistata alle fonti di produzione per poco più di un milione, dopo la raffinazione può valere sul mercato da due a tre miliardi, secondo la purezza del prodotto.
E non basta la semplice e pur stupefacente valutazione economica per capire appieno la imponenza del fenomeno droga su scala mondiale, un evento quotidiano che minaccia di deformare la società contemporanea. Ogni anno centomila esseri umani, per lo più giovani o addirittura adolescenti e ragazzi, muoiono per causa della droga; almeno nove o dieci milioni diventano irrecuperabili alla vita sociale, sia per la loro definitiva incapacità intellettuale o inettitudine fisica al lavoro, sia per la loro costante pericolosità, cioè la disponibilità a qualsiasi proposta criminale. Milioni di famiglie vengono praticamente distrutte poiché quasi sempre, accanto alla pietosa tragedia del ragazzo drogato, c’è la infelicità di un intero gruppo umano, i genitori, i fratelli, la moglie, per i quali il recupero – spesso impossibile – del congiunto diventa una costante di dolore e di disperazione.
La droga ha ammorbato oramai anche alcune istituzioni fondamentali della nostra società, la scuola, lo sport, le carceri, gli ospedali, che si stanno trasformando in un luogo di autentico contagio. Punti fermi della grande struttura civile collettiva vengono così destabilizzati, ed è tutta la struttura che comincia a vacillare. La stessa lotta quotidiana a livello internazionale contro la droga, esige un prezzo che diventa sempre più insostenibile; milioni di giornate lavorative perdute, migliaia di uomini, magistrati, studiosi, poliziotti, medici, mobilitati costantemente per arginare l’avanzata della droga; migliaia di miliardi spesi, talvolta sperperati, per tenere in vita ospedali, centri di emergenza, istituti e cliniche di recupero umano e sociale. E su tutto questo oceano, sporco e insanguinato di denaro, che scorre ininterrottamente da un continente all’altro, l’ombra invulnerabile della mafia.
Da dieci anni la mafia tiene nel pugno l’immenso affare. Dapprima nelle capitali del mercato, che erano soprattutto Beirut, Il Cairo, Istambul, la grande plaga del Medioriente, Marsiglia, New York, e ora definitivamente anche in Sicilia. L’isola è nel cuore del Mediterraneo e quindi passaggio obbligato per il cinquanta per cento dei traffici dell’area afroasiatica verso le grandi nazioni dell’occidente. Per qualche tempo in Sicilia la mafia si è limitata a controllare questo passaggio, garantendo punti di approdo e reimbarco, sicurezza e rapidità in qualsiasi operazione ed esigendo in cambio una tangente. La Fiat fabbrica automobili e le affida ai concessionari: ebbene la mafia pretende una tangente dai concessionari perché possano svolgere il loro lavoro senza rischi, ma la mafia non si sogna di sostituirsi alla Fiat per fabbricare automobili. Per anni, incredibilmente, la mafia si comportò allo stesso modo per la droga. Guardava, osservava, valutava, studiava, proteggeva, copriva, incassava la sua tangente, faceva i conti, cercava di capire perfettamente l’ingranaggio. Forse c’era una residua repugnanza morale (siamo in Sicilia dove ogni paradosso psicologico è possibile) verso un affare che era portatore di morte e di dolore per un’infinità di esseri umani, soprattutto giovani. Ma anche senza complicità mafiosa la droga avrebbe viaggiato lo stesso per tutta la terra. E alla fine i calcoli furono perfetti e abbaglianti, e l’ultima repugnanza venne vinta. La mafia assunse in proprio il traffico, anche in Sicilia, e lo fece alla sua maniera, eliminando qualsiasi concorrenza e aggiudicandosi tutto il ciclo completo di mercato: la ricerca alle fonti di produzione, la creazione di stabilimenti segreti per la raffinazione della droga e la spedizione nelle grandi capitali dell’occidente. In quell’attimo compì un salto di cultura criminale che avrebbe fatto tremare l’Italia.
Migliaia, decine di migliaia di miliardi, una montagna, un fiume travolgente, una tempesta, un mare di denaro che arriva da tutte le parti, che si rinnova e cresce continuamente. Via via perfezionandosi negli anni, mettendo radici sempre più profonde, integrando gradatamente e infine totalmente anche camorra napoletana e ‘ndrangheta calabrese, coinvolgendo definitivamente una massa di uomini sempre più vasta, la mafia ha creato una struttura criminale che, per le sue proporzioni e per il suo distacco da quella che è la logica comune, appare quasi un congegno da fantascienza. In verità molte componenti di questa struttura si sono determinate quasi per forza di cose, per la concatenazione fatale di un gioco d’interessi, ma c’è voluta indubbiamente una grande capacità di fantasia per intuire questa forza delle cose e questa concatenazione d’interessi e costruirle insieme in un perfetto mosaico. Va detto che la mafia del nostro tempo ha genio. Negarlo sarebbe diminuire il merito di Domineddio.
Questa struttura ha tre livelli, indipendenti, talvolta quasi sconosciuti l’uno all’altro, eppure completamente fusi in un identico fenomeno. Cominciamo dal basso. Il livello più propriamente criminale: gli specialisti dell’assassinio. Centinaia di migliaia di miliardi, abbiamo detto. Per gestire valori economici così imponenti, legati all’impunità della produzione e del traffico di migliaia di tonnellate di droga è indispensabile un controllo costante e totale del territorio di traffico. Non ci deve essere un ostacolo, un rischio, una trappola. E’ necessaria quindi una folla di complicità dovunque, in ogni settore della società, criminali comuni, impiegati del fisco, piccoli armatori marittimi, dipendenti delle linee aeree, funzionari dello Stato, probabilmente anche funzionari di polizia, magistrati, ufficiali di finanza, amministratori di enti locali, sindaci, assessori. Tutti costoro stanno al livello che abbiamo detto della manovalanza criminale, ognuno pagato e ricattato per suo conto, all’interno di un gruppo che garantisce il dominio di un piccolo territorio o quartiere della città.
Solo alcuni di loro gestiscono la droga, ognuno però con piccoli compiti, avvolti, protetti, nascosti dal clan, ed ogni clan a sua volta con la funzione soltanto di garantire il territorio. Ogni tanto taluno di questi gruppi si scontra con un altro per il predominio su un territorio e allora accade l’ecatombe, trenta, quaranta assassinii finché un gruppo viene sterminato e la supremazia criminale affermata. La strage terrificante fra i clan catanesi dei Santapaola e dei Ferlito, conclusa con l’assassinio di Alfio Ferlito, assieme a i tre carabinieri che lo accompagnavano nel trasferimento dal carcere di Enna a quello di Trapani, rappresenta una delle battaglie più feroci per aggiudicarsi la supremazia in una grande area metropolitana. Gli spettacolari assassinii di Stefano Bontade e di Gaetano Inzerillo a Palermo, epilogo spettacolare di una catena di cinquanta omicidi, sono stati un altro momento di questa lotta che ha visto la sanguinosa vittoria del clan dei Greco e dei Marchese.
Ma anche i vincenti, i padroni del clan, sono poco più di subappaltatori dell’immenso palinsesto mafioso: governano l’impresa criminale su una zona, conoscono alcune segrete strade della corruzione, sono ammessi in alcune anticamere del potere. La loro autentica forza è la capacità di uccidere, disporre di trenta, quaranta individui che sanno maneggiare tutte le armi più micidiali e all’occorrenza poter contare sulla loro devozione e infallibilità. Capimastri, non di più! Governano la loro parte di cantiere ma non sono mai entrati nella stanza dei progetti.
Molto più in alto dei cosiddetti uccisori c’è il livello dei pensatori, con la lontananza, il distacco di autorità che può esserci tra una fanteria alla quale è affidato soltanto il compito di conquistare, uccidere, presidiare, morire, e le stanze imperscrutabili dello stato maggiore dove si elabora la grande strategia mafiosa. Scopo unico e massimo di questa strategia è la riclicazione del denaro continuamente prodotto dall’operazione droga, cioè la fase ultima e più delicata, quella appunto che esige una capacità tecnica e finanziaria. Si tratta infatti di centinaia e migliaia di miliardi che, per essere immessi nel mercato economico e diventare quindi usufruibili, debbono passare attraverso una serie di operazioni legali che li assorbano e magicamente li riproducano come ricchezza. Ci vuole talento, ci vuole fantasia, competenza tecnica. Non a caso abbiamo parlato di un salto di cultura mafiosa.
Gli strumenti essenziali sono due: le banche e le grandi imprese economiche. Anzitutto le banche: ricevono il denaro, lo fanno proprio, lo celano, lo amministrano, conservano, proteggono reimpiegano (cento miliardi provenienti dalla droga, alle cui spalle sono decine di persone miseramente morte o uccise, migliaia di infelicità umane, possono essere impiegati per la costruzione di un grattacielo, un ponte, una diga, un’autostrada). Le banche gestite e controllate dallo Stato difficilmente potrebbero (ma non è detto che non possano) poiché c’è sempre il rischio di un funzionario di vertice che indaga, spia, riferisce, protesta, accusa. Le banche private. Talune banche private, ovviamente. Non a caso Sindona aveva la vocazione di creare banche, ne aveva l’estro, la fantasia. Il giorno in cui dovesse decidere di raccontare finalmente tutta la verità, molti imperi finanziari vacillerebbero. E in realtà Sindona, invecchiato, gracile, stanco, terrorizzato, preferisce starsene in un tiepido carcere americano. All’aria aperta, in libertà, non avrebbe certamente più di un giorno di vita! Per decifrare perfettamente la tragedia mafiosa sarebbe interessante sapere appunto quante banche e quali banche con il suo vertiginoso talento, per cui riusciva a sconvolgere persino gli altri burocrati della Banca d’Italia, Michele Sindona, piccolo ragioniere di provincia, riuscì in meno di quindici anni a creare in tutta Italia e soprattutto in Sicilia. Banche che fiorivano, si moltiplicavano, esplodevano letteralmente nelle grandi città e nei centri di periferia dove per gestire gli affari economici, i micragnosi affari della piccola borghesia commerciale e agricola sarebbe stata già d’avanzo una agenzia del Banco di Sicilia. Banche invece che spalancavano i loro battenti: «Eccomi qua, io sono la nuova banca! A disposizione!», tutto l’apparato già pronto, direttori, impiegati, casseforti, banchi di metallo, sistemi elettronici, computerizzazione, vetri antiproiettile, uscieri, gorilla con la divisa di sceriffo e la Smith Wesson, epiche cerimonie inaugurali con intervento di parlamentari, sottosegretari, ministri, questori, prefetti, «Taglia il nastro la gentile signora di sua eccellenza», fiori, applausi, banchetto, champagne, capitali già depositati nelle casseforti.
Quante di queste banche furono inventate da Sindona, con i capitali di Sindona e che Sindona riceveva da imperscrutabili fonti? Un incauto giudice milanese dette incarico a un famoso commercialista, l’avvocato Ambrosoli, di venire a Palermo per indagare, capire. Era un professionista principe, ma molto ingenuo. Praticamente lo condannarono a morte. Prima ancora che potesse venire in Sicilia gli fecero la pelle. Da allora non ha tentato più nessuno.
In verità c’era stato un primo lontanissimo botto che avrebbe dovuto far trasalire la nazione e invece parve soprattutto cosa da ridere: quando un cocciuto magistrato palermitano scoprì che il senatore democristiano Verzotto, per anni segretario regionale del partito e presidente dell’Ente minerario siciliano aveva versato centinaia di milioni di fondi neri e diversi miliardi dello stesso ente minerario presso la filiale di una delle banche di Sindona e ne percepiva clandestinamente gli interessi. Che la vicenda inducesse più all’ironia che allo spavento, dipese probabilmente dalla sagoma del protagonista, il nominato senatore Verzotto. Alto, imponente, ridente, capelli grigi, taglio impeccabile del vestito, grande sigaro in bocca, cappotto di pelo di cammello svolazzante sulle spalle, sembrava anche visivamente il personaggio perfetto per una pochade politica più che per una tragedia mafiosa. Invece fin da allora si sarebbe dovuto intuire da quali altre e ben più profonde oscurità arrivavano i capitali per le banche di Sindona e dei suoi alleati, e come esse servissero soprattutto alla riciclazione di una massa enorme di denaro che non si sarebbe potuta altrimenti impiegare. Lo spiraglio aperto da un giudice coraggioso e tenace avrebbe dovuto spalancare la strada e invece esso venne precipitosamente sbarrato. Incredibilmente nemmeno ai vertici della Banca di Stato, che dovrebbe controllare tutto il movimento del denaro sul territorio nazionale, valutandone origini e destinazioni, venne presa alcuna iniziativa d’inchiesta sulle banche che stavano proliferando nel Sud.
Nemmeno il governo del tempo e i ministri finanziari batterono ciglio. Tutti arretrarono di qualche passo per prendere le distanze, a spintoni e calci venne fatto avanzare il solo tuonitonante Verzotto, il quale infatti rimase solo alla ribalta, perché l’opinione pubblica potesse farci in conclusione una bella risata di scherno.
Verzotto veniva dalla scuola di Enrico Mattei, il più sottile cervello politico italiano del dopoguerra, ma non gli rassomigliava in niente; quanto quello era ansimante, frettoloso, sciatto, ruvido ma geniale, tanto Verzotto era invece calmo, quasi regale, elegante, cortese e, probabilmente, anche un po’ minchione. Per la magniloquenza del suo tratto era uno di quei personaggi capaci di procurare grandi catastrofi con perfetta noncuranza e senza probabilmente rendersene conto. Tuttavia dal suo esilio di Beirut, dove ebbe l’agilità di scappare una settimana prima dell’ordine di cattura, disse una cosa significativa: «Come potete pensare che io vada a sporcarmi le mani per un semplice affare di poche centinaia di milioni di interessi, quando in una banca si possono manovrare invece interessi per centinaia di miliardi!». Tutti pensarono alla malinconica battuta di uno sconfitto. Del senatore Verzotto si sono perdute le tracce.
Anzitutto banche, dunque! Talune banche, naturalmente. Che noi non conosciamo e che però il potere politico e i vertici finanziari dello Stato dovrebbero ben conoscere. Ma le banche possono ricevere il denaro nero, sotterrarlo nei propri forzieri, nasconderlo, mimetizzarlo, far perdere le tracce della sua provenienza, cioè reinvestirlo e così purificarlo, ma non possono certo condurre in proprio le operazioni tecniche di investimento. Qualcuno deve farlo. Accanto alle banche ecco dunque le grandi imprese industriali e commerciali che, opportunamente, saggiamente, prudentemente, garbatamente, silenziosamente, amabilmente finanziate, possono riuscire ad impiegare quei capitali, trasformandole in opere di sicuro valore economico. E non è detto che non siano opere di mirabile importanza e perfezione civile: un moderno ospedale, un carcere modello, una città giardino, un complesso sportivo, persino una nuova chiesa.
E qui sul palcoscenico avanzano, quasi a passo di danza, i quattro cavalieri catanesi. Dopo quello che è accaduto, vien facile perfino la citazione: i quattro cavalieri dell’apocalisse. L’Italia è uno stano paese in cui si sperimentano bizzarre onorificenze, per le quali cavaliere del lavoro invece di essere un bracciante, anche analfabeta, che per trent’anni si è spaccata la vita in una miniera tedesca pur di riuscire a costruirsi una casa a Palma di Montechiaro, è invece un appaltatore che riesce a trovare fantasia e modo di moltiplicare la sua ricchezza. Tutto questo in un paese dove la gestione e la moltiplicazione della ricchezza, la grande fortuna economica o finanziaria, per struttura stessa della società politica, deve fatalmente passare attraverso un compromesso costante con il potere, con i partiti che sostanzialmente amministrano la nazione, con gli uomini politici o gli altissimi burocrati ai quali i partiti delegano praticamente tale funzione, lo spirito di nuove leggi e decreti, la scelta delle opere pubbliche, la assegnazione degli appalti.. Chi afferma il contrario è candidamente fuori dal mondo oppure è un amabile imbecille.
A questo punto della storia dunque avanzano sul palcoscenico i quattro cavalieri di Catania, loro avanti di un passo e dietro una piccola folla di aspiranti cavalieri di ogni provincia del Sud, affabulatori, consiglieri, soci in affari, subappaltatori. Chi sono i quattro cavalieri di Catania? E’ una domanda importante ed anche spettacolare poiché i quattro personaggi sembrano disegnati apposta per costruire spettacolo.
Profondamente dissimili l’uno dall’altro, nell’aspetto fisico e nel carattere, Costanzo massiccio e sprezzante, Rendo improvvisamente amabile e improvvisamente collerico, Finocchiaro soave, silenzioso e apparentemente timido, Graci piccolino e indefettibilmente gentile con qualsiasi interlocutore, vestono però tutti alla stessa maniera, almeno nelle apparizioni ufficiali, abito grigio o blu anni cinquanta, cravatta, polsini, di quella eleganza senza moda propria dell’industriale self-made-man .
Tutti e quattro hanno imprese, aziende, interessi in tutte le direzioni, industrie, agricoltura, edilizia, costruzioni. Non si sa di loro chi sia il più ricco, a giudicare dalle tasse che paga sarebbe Rendo, ma altri dicono invece sia Costanzo, il più prepotente, l’unico che abbia osato pretendere e ottenere un gigantesco appalto a Palermo; altri ancora indicano Graci, proprietario di una banca che, per capitali, è il terzo istituto di credito della regione. La ricchezza di Finocchiaro non è valutabile. Molti ancora si chiedono: ma chi è questo Finocchiaro.
Costanzo costruisce di tutto. Case popolari, palazzi, villaggi turistici (la Perla Jonica, sulla costa di Catania, ha nel suo centro un palazzo dei congressi che non esiste nemmeno a Roma, i partecipanti al congresso nazionale dei magistrati in cui era appunto all’ordine del giorno la lotta contro la mafia, improvvisamente si accorsero di essere riuniti in uno dei templi del potere di Costanzo). Costanzo costruisce anche autostrade, ponti, gallerie, dighe; e possiede anche le industrie necessarie a produrre tutto quello che serve alle costruzioni: travature metalliche, macchine, tondini di ferro, precompressi in cemento, infissi in alluminio, tegole, attrezzature sanitarie. Un impero economico autonomo che non deve chiedere niente a nessuno. Poche aziende in Europa reggono il confronto per completezza di struttura. Ha un buon pacchetto di azioni in una delle più diffuse emittenti televisive private. E’ anche presidente e maggiore azionista della Banca popolare. Rendo ha interessi più diversificati, diremmo più moderni, almeno culturalmente la sua azienda sembra un gradino più in alto. Anche lui costruisce case, palazzi, ponti, autostrade, dighe, ma possiede anche aziende agricole modello che guardano con estrema attenzione agli sviluppi del mercato europeo e alle ultime innovazioni tecniche. Ha un suo piccolo fiore all’occhiello, una fondazione culturale che destina fondi alla ricerca scientifica a livello universitario. Quanto meno ha capito che i soldi non possono servire solo a produrre altri soldi. La sede della holding è il ritratto stesso dell’azienda, una serie di palazzi d’acciaio, alluminio e metallo, l’uno legato all’altro, sulle cime di una collina alle spalle di Catania, una immensa sagoma grigia e azzurra, come i tre palazzi della RAI di via Mazzini, incastrati insieme, e circondati da un immenso giardino al quale si accede soltanto per un ingresso sorvegliato da uomini armati. Sembra il passaggio di un confine. Anche Rendo naturalmente ha la sua televisione privata con la quale garbatamente interviene nella informazione della pubblica opinione. Ricordiamoci che Andropov, l’uomo nuovo del Cremlino successore di Breznev, è riuscito ad arrivare al vertice dell’impero sovietico poiché, mentre era a capo dei servizi segreti inventò l’ufficio di disinformazione, specializzato nel confondere la realtà. Si tratta di una scienza ammessa al massimo livello politico.
L’impero di Graci non ha sede. Cuore e cervello motore di tutte le iniziative è probabilmente la Banca agricola etnea, di sua proprietà. Per il resto Graci è pressoché invisibile. Amico di Gullotti e Lauricella, vive gran parte del suo tempo a Roma, dove studia, coordina, dirige. Fra tutti è quello che ha la più vasta copia di interessi, cantieri di costruzione in ogni parte dell’isola e dell’Italia, aziende agricole, villaggi turistici, immense estensioni di terra dappertutto. Negli ultimi tempi la sua predilezione sono i grandi alberghi di fama internazionale: il suo più recente acquisto l’hotel Timeo, sulla collina di Taormina, a ridosso del Teatro Greco, uno degli alberghi più belli del Mediterraneo, arredato in stile inglese primo novecento. Pare abbia acquistato dal duca di Misterbianco (sembra una storia del Gattopardo, raccontata cento anni dopo) il famoso lido dei Ciclopi, il più prezioso giardino equatoriale, ricco di piante esotiche che non hanno eguali in Europa e che per quarant’anni nessuno ha osato sottrarre alla sua destinazione balneare. Di tutti i cavalieri del lavoro Graci, che fino a qualche anno fa era sconosciuto a Catania, è il più riservato, raramente compare di persona. Possiede anche lui la maggioranza azionaria di un’emittente privata e di un giornale quotidiano, ma il suo nome non figura nei rispettivi consigli di amministrazione. Narrano anche della sua generosità. Ogni tanto organizza per i suoi amici mitiche partite di caccia in uno dei suoi feudi siciliani! Possiede anche una favolosa cantina di vini pregiati ai quali sono ammessi soltanto amici di vertice.
Finocchiaro sembra il cavaliere meno forte. L’ultimo arrivato dei quattro al rango di massima potenza. Costruisce soltanto, e quasi sempre solo palazzi. Ha però una sua regola: efficiente, preciso, puntuale, rapido, i suoi appalti sono sempre stati terminati a tempo di record. In meno di due anni ha costruito il nuovo palazzo della Posta ferrovia, un gigantesco edificio moderno sul lungomare di Catania, accanto alla stazione, e la nuova pretura, altro massiccio edificio incastrato proprio nel cuore della città, a cento metri dal palazzo di Giustizia.
Poiché la pretura di Catania convoglia quotidianamente gli interessi di migliaia di persone, non appena il nuovo edificio entrerà in funzione, il traffico di tutta quella zona essenziale della vita cittadina, resterà probabilmente paralizzato. Esempio di come possa essere nefanda un’opera pubblica pur perfettamente realizzata. Finocchiaro infine è anche il più lezioso. La sede della sua impresa sorge sulla litoranea fra Catania e i Ciclopi, in uno dei tratti più splendidi della riviera, una grande villa, in verità bellissima, sovrastata e circondata dal verde e da una serie di piscine intercomunicanti, sicché, una levissima massa d’acqua si muove ininterrottamente dalle terrazze ai patii. La gente passa, guarda e s’incanta.
Questi, almeno dal punto di vista dello spettacolo, i quattro cavalieri di Catania. Ma chi sono in verità? Perseguiti dalla magistratura con mandati di cattura e ordini di comparizione, alcuni sospettati di gigantesche frodi fiscali e addirittura di associazione a delinquere, assediati dalla guardia di Finanza che sta frugando fra tutti loro conti, rifiutati dalla pubblica opinione, soprattutto dai più poveri e sfortunati i quali non riescono mai ad amare le fortune troppo rapide e sprezzanti, ed al momento in cui le vedono crollare hanno un trasalimento di felicità e un grido: “lo sapevo!”, i quattro cavalieri sono nell’occhio del ciclone, in mezzo al quale sta immobile e sanguinoso l’assassinio del prefetto Dalla Chiesa, la più feroce e tragica sfida portata dalla mafia all’intera nazione.
Chi sono dunque i quattro cavalieri? Quale il loro ruolo in questo autentico tempo di apocalisse? Già il fatto che questi quattro personaggi si siano riuniti insieme per discutere e decidere il destino futuro dell’imprenditoria e quindi praticamente dell’economia di mezza Sicilia, e stiano lì segretamente, due più due quattro, seduti l’uno in faccia all’altro, a valutare, soppesare, scartare, annettere, distribuire, in una sala che è facile immaginare di vetro e metallo, inaccessibile a tutti, nel cuore segreto dell’impero Rendo, con decine di uomini armati dislocati ad ogni ingresso del palazzo; e che al termine del convegno uno di loro, Costanzo, il più plateale, chiaramente tuttavia portavoce di tutti e infatti mai smentito, dichiari spavaldamente: «Abbiamo deciso di aggiudicarci tutte le operazioni e gli appalti più importanti, quelli per decine o centinaia di miliardi, lasciando agli altri solo i piccoli affari a due o tre miliardi, tanto perché possano campare anche loro!»; e che tutti e quattro siano giudiziariamente accusati di evasioni per decine e forse centinaia di miliardi, tutto denaro pubblico, quindi appartenente anche al maestro elementare, all’operaio, al piccolo artigiano, al contadino, al manovale, all’impiegato di gruppo C, all’emigrante, poveri innumeri italiani che sputano sangue per sopravvivere e spesso maledettamente nemmeno ci riescono; e che taluni di loro siano stati amici del bancarottiere Michele Sindona, o del boss Santapaola ricercato per l’assassinio di Dalla Chiesa, o del clan Ferlito il cui capo venne trucidato insieme a tre poveri carabinieri di scorta: ebbene tutto questo non corrisponde all’immagine, secondo costituzione, di cavalieri della Repubblica.
Ma non è questo il punto. Il quesito è un altro, ben più duro e drammatico: i quattro cavalieri, o taluno di loro, e chi per loro, stanno in quel massimo e misterioso livello che fa la storia della mafia? A questa domanda si possono dare tre risposte secondo tre diverse prospettive: quello che appare, quello che la gente pensa, e quello che probabilmente è. Quello che appare è ciò che abbiamo descritto, cioè di quattro potenti di colpo sospinti nel cuore di una tempesta politica, inquisiti fiscalmente e giudiziariamente per possibili gravi delitti. Solo il magistrato potrà dire una verità che può essere tutto e il contrario di tutto.
Quello che la gente pensa è più brutale e cioè che i cavalieri di Catania, o taluno di loro, partecipano alla grande impresa mafiosa e furono loro ad impartire l’ordine di uccidere Dalla Chiesa, appena il generale osò chiedere allo Stato gli strumenti legali per rovistare nei loro imperi economici. Ma quello che pensa la gente (e che anche tutti i grandi giornali, con perigliose acrobazie di linguaggio, hanno dovuto riferire) non può avere alcun valore giuridico e nemmeno morale, poiché può nascere da pensieri spesso mediocri, rancori sociali, invidie umane. Non ci sono prove e quindi fino ad oggi non esiste!
Infine quello che probabilmente è: cioè di quattro personaggi i quali, con superiore astuzia, temerarietà, saggezza, intraprendenza, hanno saputo perfettamente capire i vuoti e i pieni della struttura sociale italiana del nostro tempo e della classe politica che la governa, ad essere più rapidi e decisi nel trarne i vantaggi. Enrico Mattei era maestro in questa arte. Anche Agnelli deve essere più rapido e deciso dei concorrenti. Il rapporto con la mafia è stato agnostico: noi facciamo i nostri affari, voi fate i vostri! Noi vogliamo costruire strade, palazzi, ponti, dighe, essere proprietari di banche e aziende agricole, ottenere gli appalti delle grandi opere pubbliche. Questo è affar nostro. Voi volete gestire la droga! Affar vostro! E pretendete anche i subappalti per i lavori di scavo e trasporto! Che sia! Però non vogliamo bombe nei nostri cantieri, né persecuzioni criminali, nemmeno estorsioni, nemmeno che i nostri figli, parenti, amici possano essere rapiti o sequestrati.
Se così è, tutto questo non è morale, ma non è nemmeno reato! E purtroppo non è nemmeno una vera risposta in un momento storico terribile in cui la tragedia mafiosa non abbisogna di ipotesi ma di verità definitive anche se agghiaccianti. Esiste infatti una realtà innegabile: perché la mafia possa amministrare le sue migliaia di miliardi, debbono pur esserci imprese private ed istituti pubblici, uomini d’affari o di politici capaci di garantire l’impiego e la purificazione di quell’ininterrotto fiume di denaro. La Nazione ha finalmente il diritto di identificarli! E la Sicilia il diritto di non essere data in olocausto alla incapacità dello Stato (o peggio) di identificarli. Esiste oltretutto una realtà che è anche un fatto morale e politico di cui bisogna onestamente parlare. Da decenni, forse da secoli la società siciliana non ha avuto una imprenditoria capace di esprimere le sue esigenze e metterle al passo con la tecnica e la civiltà. Venivano tutti dal Nord, prendevano il denaro e il territorio, costruivano e se ne andavano. Spesso costruivano male. Talvolta le loro opere erano autentiche rapine o devastazioni o truffe. Il saccheggio del golfo di Augusta e l’avvelenamento di centomila abitanti di quel territorio con gli scarichi petrolchimici costituirono una di queste imprese. I giganteschi ruderi industriali nel golfo di Termini Imerese, stabilimenti che non hanno mai funzionato e che hanno divorato montagne di miliardi della Regione, rappresentano un’altra impresa. In tutto quello che è stato costruito in Sicilia, i siciliani sono stati al più subappaltatori (se possibile anche mafiosi) o soltanto miserabile manodopera. Erano poveri, ignoranti, disponibili, costavano poco, non si ribellavano mai. I colossi petrolchimici della Rasiom furono costruiti con migliaia di pecorai e braccianti trasformati in manovali. La Sicilia è stata sempre una terra tecnodipendente. Improvvisamente, nell’ultimo ventennio sono emersi questi cavalieri del lavoro (non soltanto questi quattro), rapaci, temerari, prepotenti, aggressivi, qualcuno anche grossolano e ignorante, però dotati di fantasia, di straordinarie capacità industriali e tecniche, e di talento, precisione, velocità. Hanno realizzato opere pubbliche a tempo di record, hanno creato aziende e tecnici di altissima specializzazione, incorporato in questa grande macchina di lavoro decine di migliaia di altri siciliani, e la loro intraprendenza si spinge ormai su tutto il territorio nazionale, in Europa, in Africa, nel Sudamerica. La loro concorrenza è spietata. Molte grandi aziende del Nord non solo hanno perduto il loro tradizionale feudo meridionale, ma si vedono insidiati nel loro stesso territorio. Bene, la tragedia mafiosa certamente ha offerto la possibilità di una controffensiva su tutto il fronte, una specie di santa inquisizione. Il tentativo di ristabilire un rapporto di colonizzazione è chiaro.
Allora a questo punto il discorso è già perfetto. Se tutti i cavalieri di Catania e di Sicilia, tutta l’imprenditoria dell’isola fa parte della struttura mafiosa che la si sradichi e distrugga con tutti i mezzi della giustizia. Se solo alcuni di loro sono dentro la mafia, allora bisogna colpire soltanto loro, implacabilmente, eliminandoli dalla società, e rilasciando così agli altri, ai superstiti, una possibilità politica e morale di continuare l’opera di evoluzione tecnica che per molti versi stava trasformando la Sicilia. Colpire tutti, anche gli innocenti, equivale a non colpire nessuno lasciando quindi i mafiosi nel loro ruolo; significa egualmente il trionfo della mafia. La mafia che finalmente si identifica con lo Stato! Ed è qui che entra in gioco l’ultimo livello della struttura, l’imperscrutabile vertice che finora ha paralizzato la giustizia. Riguardiamola questa struttura. In basso la sterminata folla di manovali che si contendono il sottobosco del potere criminale, tutte le infinite cose dalle quali può nascere la ricchezza: i mercati, le concessioni, i subappalti, le estorsioni, una moltitudine confusa e terribile che appesta e insanguina quasi tutte le funzioni della società, sottomettendo le provincie, le città, i quartieri. Più in alto, molto più in alto, i due livelli paralleli, i grandi, insospettabili finanzieri ed operatori che gestiscono migliaia di miliardi della droga; le banche ricevono, nascondono e riciclano la massa infame e infinita di denaro; le grandi holding siciliane, romane, milanesi che assorbono quel denaro e lo trasformano in ammirabili operazioni pubbliche e private. Manca l’ultimo livello, il più alto di tutti, senza il quale gli altri non avrebbero possibilità di esistere. Il potere politico! Vi racconto una piccola atroce storia per capire quale possa essere talvolta la posizione del potere politico dentro una vicenda mafiosa, una storia vecchia di alcuni anni fa e che oggi non avrebbe senso e che tuttavia in un certo modo interpreta tutt’oggi il senso politico della mafia. Nel paese di Camporeale, provincia di Palermo, nel cuore della Sicilia, assediato da tutta la mafia della provincia palermitana, c’era un sindaco democristiano, un democristiano onesto, di nome Pasquale Almerico, il quale essendo anche segretario comunale della DC, rifiutò la tessera di iscrizione al partito ad un patriarca mafioso, chiamato Vanni Sacco ed a tutti i suoi amici, clienti, alleati e complici. Quattrocento persone. Quattrocento tessere. Sarebbe stato un trionfo politico del partito, in una zona fino allora feudo di liberali e monarchici, ma il sindaco Almerico sapeva che quei quattrocento nuovi tesserati si sarebbero impadroniti della maggioranza ed avrebbero saccheggiato il Comune. Con un gesto di temeraria dignità, rifiutò le tessere.
Respinti dal sindaco, i mafiosi ripresentarono allora la domanda alla segreteria provinciale della DC, retta in quel tempo dall’ancora giovane Giovanni Gioia, il quale impose al sindaco Almerico di accogliere quelle quattrocento richieste di iscrizione, ma il sindaco Almerico, che era medico di paese, un galantuomo che credeva nella DC come ideale di governo politico, ed era infine anche un uomo con i coglioni, rispose ancora di no. Allora i postulanti gli fecero semplicemente sapere che, se non avesse ceduto, lo avrebbero ucciso, e il sindaco Almerico, medico galantuomo, sempre convinto che la Dc fosse soprattutto un ideale, rifiutò ancora. La segreteria provinciale s’incazzò, sospese dal partito il sindaco Almerico e concesse quelle quattrocento tessere. Il sindaco Pasquale Almerico cominciò a vivere in attesa della morte. Scrisse un memoriale indirizzato alla segreteria provinciale e nazionale del partito denunciando quello che accadeva e indicando persino i nomi dei suoi probabili assassini. E continuò a vivere nell’attesa della morte. Solo, abbandonato da tutti. Nessuno gli dette retta, lo ritennero un pazzo visionario che voleva continuare a comandare da solo la città emarginando forze politiche nuove e moderne.
Talvolta lo accompagnavano per strada alcuni amici armati per proteggerlo. Poi anche gli amici scomparvero. Una sera di ottobre mentre Pasquale Almerico usciva dal municipio, si spensero tutte le luci di Camporeale e da tre punti opposti della piazza si cominciò a sparare contro quella povera ombra solitaria. Cinquantadue proiettili di mitra, due scariche di lupara. Il sindaco Pasquale Almerico venne divelto, sfigurato, ucciso e i mafiosi divennero i padroni di Camporeale. Pasquale Almerico, per anni, anche negli ambienti ufficiali del partito venne considerato un pazzo alla memoria.
E’ una storia oramai lontana e dimenticata, nella quale erano in gioco soltanto quattrocento voti di preferenza: una piccola storia però perfetta come un teorema poiché spiega come può il potere politico gestire la vicenda mafiosa e starci da protagonista. E come ancora oggi, negli anni ottanta, al vertice di ogni livello di mafia stia immobile e inalterabile una parte del potere politico. Il potere politico che è misterioso sempre e mai perfettamente identificabile, spesso nemmeno perseguibile dalla giustizia, che ha nelle mani tutti gli strumenti, positivi e negativi della potenza: dovrebbe proteggere ecologicamente un territorio e invece lo abbandona alla morte chimica o alla speculazione selvaggia; già da dieci anni avrebbe dovuto abolire il segreto bancario e non lo ha mai fatto; dovrebbe emarginare gli uomini corrotti, ignoranti, violenti e viceversa li induce talvolta in Parlamento e gli affida gli uffici ministeriali onnipotenti; dovrebbe garantire la regolarità dei concorsi pubblici e invece assedia le commissioni d’esami con raccomandazioni e violenze morali; dovrebbe costruire una diga in quella provincia e invece costruisce un villaggio turistico in un’altra; dovrebbe smantellare determinati uffici di Procura e invece li abbandona nelle mani di giudici inerti, paurosi, o peggio. Il potere politico che nasconde, protegge, mimetizza, informa, contratta, archivia. Il potere politico che stabilisce la spesa di miliardi per opere pubbliche, determina l’ubicazione e consistenza delle opere, ne affida gli appalti. Il presidente della Regione Pier Santi Mattarella, anche lui democristiano onesto, venne ucciso perché aveva deciso di spendere onestamente i mille miliardi della legge speciale per il risanamento di Palermo. Quasi certamente fra coloro che assistettero commossi ai funerali, espressero sincere condoglianze, e baciarono la mano della vedova, c’erano i suoi assassini. Probabilmente gli stessi che avevano seguito dolorosamente i funerali del vicequestore Boris Giuliano, del giudice istruttore Cesare Terranova, del procuratore della Repubblica Gaetano Costa, del segretario comunista Pio La Torre. Tutti e quattro assassinati perché stavano già scoprendo i punti di sutura tra politica e mafia.
Anche il generale Dalla Chiesa aveva capito. Era uno sbirro nel senso eccellente della parola. Non dimentichiamo che aveva presentato domanda di iscrizione alla loggia P2. La domanda non era stata accettata poiché Gelli aveva fiutato l’infido e cercato di prender tempo. E lo stesso Dalla Chiesa ebbe poi a giustificarsi affermando di aver compiuto quella oscura mossa personale per scoprire alcune verità politiche all’interno della loggia massonica segreta. Quanto potesse essere sincero lo seppe soltanto lui. Certo era un uomo che da tempo aveva intuito la connessione fra potere politico, ricchezza e violenza. La lunga e atroce lotta contro le Br gli aveva fornito preziosi elementi di prova, ed altri ne aveva acquisiti in centinaia di interrogatori. Si stava disegnando una sua mappa dell’occulto. Quando arrivò a Palermo con la carica di superprefetto, i vertici criminali sapevano perfettamente di avere di fronte l’avversario più duro e cosciente. Rispetto agli altri che erano caduti prima di lui, egli aveva in più un prestigio mitico, ma soprattutto stava per avere in pugno gli strumenti giuridici, le armi decisive per condurre la lotta fino in fondo: quei superpoteri che incredibilmente (un giorno bisognerà pur riscriverla perfettamente questa storia) lo Stato continuava a negargli e che tuttavia alla fine avrebbe dovuto concedergli.
Dalla Chiesa commise un solo errore. Di vanità. In fondo egli restava un militare e quindi soprattutto un retore. Gli piaceva trasformare qualsiasi lotta in guerra aperta, con tutte le vanaglorie del combattimento: bandiere, tamburi, proclami, applausi, dimostrazioni d’amore popolare. Tutto questo contro un avversario che era sempre sottoterra, un gelido, sinistro groviglio di serpenti che potevano essere dovunque, in ogni momento sotto i suoi piedi, che potevano sedere accanto a lui sul palco di una festa nazionale, stringergli la mano, fargli auguri e congratulazioni. Seguire poi tristemente il suo funerale, come poi certamente accadde. La guerra contro un tale nemico è oscura e senza gloria, e infinitamente più terribile di ogni altra. Non si può vincere con una serie di scaramucce, poiché i serpenti restano ovunque, muoino e si moltiplicano, ma bisogna vincerla una volta sola, una sola battaglia, preparata con paziente perfezione in ogni dettaglio.
Invece il generale Dalla Chiesa faceva discorsi, rilasciava interviste, invocava, accusava, era l’unico personaggio italiano che poteva chiedere ed ottenere i poteri speciali, e quindi anche la facoltà di indagine nelle banche e nei patrimoni privati, e lo fece sapere a tutti: praticamente come se dicesse a tutti, gridasse: «So chi siete, da un momento all’altro vi strapperò la maschera! Fate presto a uccidermi o non avrete tempo!».
E come tutti i retori era anche ingenuo. Avrebbe dovuto preparare la battaglia, chiuso in un bunker, protetto da cento carabinieri e da ogni diavoleria elettronica, e invece viaggiava su una macchinetta con la giovane moglie accanto e solo un povero agente di scorta. Proprio questo poveraccio avrebbe dovuto rifiutarsi: «Generale, io così con lei non viaggio!» Ma Dalla Chiesa era un mito! Infatti lo uccisero con una facilità irrisoria, a colpo sicuro, (se è vero quello che finora ha detto la magistratura) con due rozzi killer, proprio manovali della mafia fatti venire da un’altra provincia della Sicilia e addirittura dalla Calabria.
Dalla Chiesa morì, ma il suo colpo tremendo lo aveva già vibrato, forse proprio con la sua ingenua retorica, indicando con discorsi e proclami a tutta la Nazione, clamorosamente, quello che tanti altri, anche ministri, anche altissimi ufficiali e magistrati sapevano e però non dicevano, cioè dov’era il groviglio di serpenti, e quali dunque i mezzi per portarli allo scoperto e schiacciarli.
TI LASCIO IN EREDITÀ I MISSILI DI COMISO
Ti lascio in eredità i missili di Comiso
da “I Siciliani”, gennaio 1983
Voglio fare un discorso corretto e sereno sui siciliani, premettendo naturalmente che io sono perfettamente siciliano. Un discorso sulla stupidità dei siciliani. Noi affermiamo spesso di essere straordinariamente intelligenti, quanto meno di avere più fantasia e piacere di vivere, rispetto a qualsiasi altro popolo della terra. Non è vero! La storia è là a dimostrarlo. Da migliaia di anni siamo semplicemente terra di conquista, gli altri arrivano, saccheggiano, stuprano, costruiscono qualche monumento, ci insegnano qualcosa, e se ne vanno. Noi ci appropriamo di una parte di quella civiltà, a volte diventiamo anche i custodi del tempio, in attesa che arrivi un’altra ondata saccheggiatrice. Siamo quasi sempre colonia per incapacità di essere veramente popolo. Presi i siciliani ad uno ad uno, può anche accadere che taluno riesca ad esprimere (nella poesia, nel delitto, nella finanza, nell’arte) attimi di ineguagliabile talento. Sono quelli che ci fottono, che ci danno l’impressione, spesso la certezza, di essere i migliori. Nella realtà, presi tutti insieme, siamo quasi sempre un popolo imbecille.
L’ultimo monumento civile che gli altri stanno erigendo nella colonia Sicilia, sotto lo sguardo inerte degli indigeni, sono le rampe per i missili atomici. Discutiamone per un istante poiché si tratta della nostra vita e soprattutto di quella dei nostri figli. La guerra nucleare è come un assassinio mafioso: non si dichiara, ma si esegue, cioè si scatena senza preavviso e nel momento più imprevedibile. Accade che una delle due parti, nella disperazione di essere condannata alla sconfitta, o nell’illusione di poter fulmineamente annientare il nemico e vantare alla fine una popolazione superstite, decida l’aggressione atomica. La quale naturalmente deve essere totale e contemporanea, cercando anzitutto di colpire e distruggere il maggior numero di strutture belliche avversarie. Anche questo è un perfetto principio mafioso: mai dare uno schiaffo al rivale, né sparargli alle gambe, ma mirare direttamente al centro degli occhi in modo da non correre nessun rischio di reazione.
A sua volta la nazione aggredita ha una sola possibilità di sopravvivenza: incurante cioè delle sue città annientate e dei suoi milioni di morti, reagire quanto più fulmineamente e spaventosamente possibile, cercando di colpire subito gli obiettivi essenziali dell’avversario, anzitutto naturalmente le strutture di offesa nucleare. Anche questo rientra nella perfetta logica della lotta: tu mi spari al centro degli occhi, prima di morire debbo disperatamente tentare di spararti al cuore. L’ipotesi di una guerra nucleare è questa soltanto: una reciproca, folgorante distruzione delle rispettive strutture atomiche e delle grandi città, dopo di che, gli eserciti tradizionali, in tute d’amianto e piombo, cominceranno lentamente ad avanzare, eliminando pietosamente gli agonizzanti e imprigionando i superstiti.
Tutti sanno questo. Da quarant’anni migliaia di scienziati, generali e politici lavorano a perfezionare questo progetto di distruzione contemporanea e totale sicché è assolutamente certo che in Russia e America hanno raggiunto in tal senso la perfezione: oramai sono in condizione nel giro di due minuti di colpire gli obiettivi essenziali del nemico ed essere annientati. Il tutto completamente computerizzato: all’essere umano non resta neanche il compito di premere il fatidico pulsante. Per gli esseri viventi i cervelli elettronici hanno calcolato esattamente il tempo di farsi la croce.
Ciò premesso, per capire esattamente la situazione siciliana, valutare cioè il significato dell’impianto dei missili nucleari in Sicilia, sarebbe opportuno immaginare (ma non ci vuole molta fantasia) la cronaca di quanto accaduto un giorno imprecisato dello scorso agosto, poco prima di mezzogiorno a Mosca, in uno dei misteriosi sotterranei del Cremlino (a prova di offesa atomica, naturalmente, poiché i capi politici ed massimi strateghi, siano essi duri capitalisti reganiani, oppure cupi marxleninisti, hanno provveduto per tempo e perfettamente alla loro incolumità e scamperebbero certamente all’apocalisse atomica, salvo poi essere impiccati dai vincitori o, alla meglio, essere divorati da qualche affamata banda di superstiti).
Ebbene in quel mattino dell’imprecisato giorno d’estate, al Cremlino si è riunito un vertice strategico al quale hanno partecipato ministri della guerra, marescialli e scienziati. Dall’Italia era arrivata notizia che erano stati concessi i primi appalti per la costruzione della base di missili nucleari a Comiso. La notizia precisava che gran parte degli appalti erano stati concessi a cavalieri del lavoro, siciliani e settentrionali, e questo particolare aveva fatto una grande impressione, perché anche al Cremlino è giunta voce della straordinaria bravura e rapidità dei cavalieri nell’esecuzione delle opere pubbliche. Su una parete del grande salone sotterraneo moscovita si stendeva la mappa dei due emisferi, sulla quale Comiso era indicata come un puntolino rosso luminoso in mezzo all’azzurro del Mediterraneo.
La riunione è stata lunga e approfondita. Politici e militari sovietici hanno esaminato tutti gli aspetti della situazione, al fine di indicare quali obiettivi in terra russa i missili siciliani potrebbero eventualmente colpire e, viceversa, da quali basi sovietiche l’impianto di Comiso poteva essere raggiunto e distrutto nel più breve tempo possibile. Pare che dieci missili a testata atomica bastino. Si tratta di stabilire esattamente traiettorie e rotte, roba che i sofisticatissimi congegni elettronici di punteria possono decifrare in pochissimo tempo. Comunque alla fine è stato deciso di affidare a una équipe scientifico-militare il compito di mettere perfettamente a punto entro due anni (cioè prima che la costruzione della base sia completata) una struttura offensiva che da basi di terra e dal fondo del mare, per mezzo di sommergibili atomici, o forse anche dallo spazio dagli imminenti satelliti nucleari, possa concentrare su Comiso (guerra offensiva o reattiva, non importa) un uragano nucleare in meno di novanta secondi. Nei calcoli è prevista una approssimazione del dieci per cento, il che significa che, per avere la certezza di distruggere la base di Comiso nel raggio di dieci chilometri, viene prevista una distruzione dell’area circostante, per il raggio di cento chilometri. Vale a dire da Messina a Capo Passero. Circa trecento fra città e paesi e tre milioni di abitanti.
L’équipe sovietica si è messa subito al lavoro. Scienziati e militari designati accoppiano la disciplina cieca del buon marxista alla paziente fantasia della gente russa. In questo momento dunque in un laboratorio misterioso del territorio russo, c’è un team di tecnici e strateghi che sta lavorando esclusivamente a questo progetto: un sistema di offesa nucleare che, in meno di cento secondi, possa infallibilmente uccidere tre milioni di siciliani in mezzo a ai quali ci onoriamo di essere io che scrivo e voi che leggete, i nostri genitori, fratelli, figli, amici, ed anche le case dove nascemmo, le strade dove camminammo, i nostri libri pazientemente raccolti, le fotografie di tre generazioni, il diploma di laurea, il libretto di risparmio e tutte quelle altre infinite, minuscole, preziose cose che compongono la nostra vita. Da quel giorno d’estate, mezza Sicilia, quelli che siamo vivi e quelli che nasceranno, sarà costretta a vivere con questa ipotesi di morte atomica sopra la testa, un’apocalisse che forse non si verificherà mai, e tuttavia niente esclude che possa accadere (anche per errore) da un momento all’altro in meno di cento secondi. Si sono appropriati di una parte di noi e anche di una parte dell’amore per i nostri figli. Un giorno accadrà che che i nostri figli o nipoti che ancora debbono nascere ci guarderanno negli occhi con un sorriso sprezzante, e ci chiederanno: voi dove eravate quando fu deciso di costruire la base dei missili a Comiso e e condannarci quindi a una vita provvisoria. Come vi siete permessi di appropriarvi anche del nostro destino umano prima ancora che fossimo concepiti. Un essere umano afflitto da un’atroce inguaribile deformità, il quale apprende che il padre per sapendo che sarebbe stato malato, deforme, infelice, volle tuttavia egualmente farlo nascere, ha il diritto di sputare in faccia al padre.
E mentre tutta questa cosa terribile accade, la nostra massima reazione è stata una lamentosa protesta all’assemblea regionale, i politici siciliani si sono intabarrati nel loro impaurito silenzio, i sindacati nazionali disposti a battersi soltanto per le “una tantum”, sono rimasti in stato di ebetitudine, migliaia di buoni ragusani hanno espresso soprattutto la loro preoccupazione sull’equo prezzo degli espropri per gli impianti militari, altri stanno febbrilmente organizzando qualche buona iniziativa commerciale, alberghi, villaggi turistici, balere, ristoranti tipici (da quelle parti si fa la migliore salsiccia del mondo) per la popolazione dei militari che presiederanno la base. Inutile indignarci se da cento anni lo Stato italiano ci tratta da colonia. Per incapacità politica, per strafottenza popolare, troppo spesso meritiamo di esserlo. E invece sarebbe tempo che imparassimo ad essere finalmente padroni del nostro destino storico, specie quando coincide con una grande causa civile ed umana.
MAFIA E CAMORRA: CHI SONO, CHI COMANDA
Mafia e camorra: chi sono, chi comanda
da “I Siciliani”, marzo 1983
Una prima differenza è fondamentale tra mafia e camorra. La mafia nasce, cioè concettualmente si forma in Sicilia, una grande isola per tremila anni violentata da decine di invasioni diverse e che, nonostante guerre, rivolte, ribellioni, splendori e grandezze, battaglie e rivoluzioni tutte tese a conquistare una dignità di nazione, non è mai praticamente riuscita a essere uno Stato. Lo Stato erano gli altri. Lo Stato erano i conquistatori. Lo Stato che amministra, garantisce, impone, costruisce, preleva, insegna, percepisce, fa le leggi, esercita giustizia, questo Stato erano gli altri, cioè i nemici. Per tremila anni lo Stato in Sicilia è stato nemico, cioè una entità quasi sempre assente e che si appalesava soltanto per infliggere danno: le tasse, decime, gli arruolamenti, le confische. Né l’unità d’Italia ha dato questa certezza dello Stato presente e amico, semmai per successivi abbandoni e continue delusioni ha reso più amara questa solitudine. Gli avvenimenti politici per i quali in questi ultimi quarant’anni la capitale Palermo è stata soltanto colonia del potere romano, il fallimento della Cassa per il Mezzogiorno, il bluff delle grandi opere pubbliche mai realizzate, la collusione sempre più spavalda fra vertici di violenza e rappresentanti politici che hanno saccheggiato, diviso, lottizzato, devastato, spartito potere ed economia, e infine la crisi paurosa della giustizia (Scaglione, Terranova, Costa, Ciaccio Montalto, quattro alti magistrati impunemente uccisi) ha dato una certezza drammatica a questa sensazione che lo Stato fosse assente, cioè a questa solitudine del siciliano. Siamo dinnanzi a un dato storico e culturale terribile che tuttavia bisogna riconoscere e ammettere perfettamente. Il contrario sarebbe solo lamentazione imbecille e retorica.
Da questo dato storico bisogna partire per definire quale possa essere il rapporto sociale – cioè identità, semplice rassomiglianza, oppure diversità e quale tipo di diversità – tra mafia e camorra. In verità, secondo immagine (stavamo per dire secondo spettacolo) mafia e camorra sembrano possedere la stessa facies criminale, cioè la medesima immoralità nel rapporto fra clan criminale e società, e altresì l’identica maniera di delinquere, cioè l’anonimo potere di realizzare qualsiasi delitto e contemporaneamente trasformare il delitto in potere. Infine sembrano identici anche gli obiettivi: la conquista passiva (senza offrire in cambio che la sola ipotesi della morte) di una percentuale sempre più vasta della economia di un territorio, soprattutto la economia emergente, i mercati più pingui, le attività più lucrose, siano esse legittime (grandi appalti o circuiti commerciali perfettamente in regola con le leggi) o anche beni economici fuori legge come il contrabbando e la prostituzione. Anche in questo la identità tra mafia e camorra sembra dunque perfetta.
Nella realtà, al di là di occasionali alleanze storiche o contingenti complicità, i due fenomeni criminali sono profondamente diversi. Una differenza che è culturale e politica e bisogna dunque perfettamente valutare quando si vuole definire la identità dell’una o dell’altra, e quindi capire quali siano i mezzi più opportuni per lottare (sconfiggere mai, storicamente non è più possibile poiché bisognerebbe distruggere il territorio umano delle due regioni) lottare, dicevamo, un fenomeno di violenza che è diventato la tragedia più profonda del Sud, che conduce allo sperpero di migliaia di miliardi, che costa ogni anno la vita ad almeno duemila esseri umani, che sta praticamente contagiando tutto il resto dell’Italia e che, attraverso una umiliazione quotidiana, spesso sprezzante, sempre sanguinosa, aggrava la debolezza di uno Stato i cui connotati sono già gracilità, paura, stupidità.
In Sicilia dunque da migliaia di anni una nazione senza Stato, ed a Napoli invece uno Stato che da secoli ha sopraffatto e talora schiantato la nazione, prevaricandola, angariandola, cercando di appropriarsi di ogni attività, idea, concetto della collettività. Napoli è la città nella quale il potere clericale cercò persino di appropriarsi del teatro popolare, negandogli spontaneità, imponendogli liturgie, temi, conclusioni e persino norme drammatiche. Negli ultimi secoli prima gli spagnoli, poi i francesi, infine i borboni e per ultimi i piemontesi hanno imposto la presenza ossessiva di uno Stato che cercava di governare anche nelle abitudini e nell’animo della gente. La presenza dello Stato a Napoli non sono state mai le buone leggi, ma le alte mura, i gendarmi, le prigioni, il capestro. Non è un caso che l’anima napoletana abbia cercato da secoli la sua libertà di esistere nell’unica, altissima cosa umana che nessun potere potrà mai sopprimere nello spirito di un popolo: la musica. La musica napoletana, per questo, è un continuo grido di amore, di bellezza e di libertà.
Il siciliano è vissuto in uno spazio di solitudine dentro il quale le città erano solo capisaldi di inimicizie. Il napoletano è vissuto dentro una sola immensa città che è stata la sua unica nazione, il suo fantastico ma angusto spazio e quindi anche la sua prigione. Se guardate bene anche dentro la letteratura, i grandi narratori siciliani, Verga, Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Brancati, Vittorini, lo stesso Sciascia, raccontano soprattutto storie e drammi di individui dentro la società: i napoletani invece, Marotta, Viviani, Eduardo, raccontano soprattutto Napoli, popolata da una infinità di individui.
In Sicilia la mafia, cioè l’immensa, tragica, oscura forza criminale nasce così per sostituire lo Stato assente, per determinare leggi proprie al posto di quelle leggi che lo Stato non riesce a imporre, cioè stabilire comunque un ordine, una sia pur barbara regola di vita. E se lo Stato improvvisamente si appalesa, lo abbatte; e se qualcuno cerca legittimamente di rappresentarne leggi e giustizia, lo corrompe e lo fa suo, altrimenti lo uccide.
A Napoli invece la forza criminale, che non è una determinazione infame della storia e non ne ha quindi la tragica esperienza, grandezza e crudeltà, ma è soprattutto un prodotto umano della miseria, una necessità drammatica di sopravvivere, cerca disperatamente di ribellarsi allo Stato sempre presente e prevaricatore, e non potendo scegliere la rivolta armata, cerca di insinuarsi dentro lo Stato che già esiste, di conquistarlo dall’interno con un’opera di erosione pressoché invisibile che comincia necessariamente dal basso e coinvolge quasi tutta la collettività. Così paradossalmente accade che, a Palermo, mille grandi mafiosi insediati in quasi tutti i vertici economici, politici, burocratici, possano dominare una città di un milione di abitanti e da quella capitale quasi tutto il territorio dell’isola, in un distacco sprezzante dal resto della popolazione; ed a Ottaviano, un intero grande centro abitato di decine di migliaia di abitanti, possa vivere in una fedeltà cieca, assoluta e soprattutto palese a Cutolo e alla sua organizzazione camorrista.
Via via, così per successivi diagrammi, la mafia appare diversa dalla camorra. La mafia è Stato ed ha le sue colonie a Roma, Milano, Torino, Napoli (Napoli certo), Marsiglia, New York, Chicago; la camorra è dentro lo Stato di Napoli dovunque esso si estenda. La mafia governa migliaia di miliardi, le banche, la droga, i grandi sequestri criminali, gli appalti nazionali, probabilmente la elezione di taluni parlamentari, talvolta persino la designazione di uomini di governo; la camorra lotta ancora e si massacra per il pullulare delle estorsioni, anche le più miserabili, il contrabbando delle sigarette, le tangenti sulla prostituzione. La mafia uccide soltanto chi gli si para dinnanzi, la camorra fa soprattutto strage di se stessa per la spartizione del bottino.
Se cinque milioni di siciliani si ribellassero alla mafia, non accadrebbe niente. Alla mafia non gliene fotte. Ha un solo nemico che può batterla: lo Stato vero, lo Stato di diritto, con i magistrati che fanno veramente giustizia, funzionari incorruttibili, politici disposti a interpretare con assoluta moralità il loro mandato. Se tre milioni di napoletani si ribellassero alla camorra, la camorra sarebbe morta. Stiamo parlando di ipotesi di fantascienza, ma esse spiegano perfettamente una differenza storica, sociale, politica, umana, criminale, psicologica e in definitiva perciò culturale, poiché ogni cosa accade dentro una società umana, nel bene e nel male, nell’arte o nella violenza, nella filosofia o nell’omicidio, appartiene sempre alla cultura di un popolo.
Essendo dunque diverse le origini dei due fenomeni, mafia e camorra, pur quasi identiche nell’immagine, debbono essere diverse le valutazioni della lotta e gli strumenti, soprattutto politici e sociali. Che in questo tempo storico mafia e camorra siano alleate e sempre più profondamente complici nell’affare criminale per eccellenza, la droga, non significa che l’una si sia sovrapposta all’altra o sia riuscita a incorporarla. Guai se ciò dovesse accadere. Ci sarebbe un nuovo, terrificante regno delle Due Sicilie, dinnanzi al quale la battaglia dello Stato italiano sarebbe forse definitivamente perduta.
CINQUE MILIONI DI SICILIANI BRUCERANNO IN UN LAMPO
Cinque milioni di siciliani bruceranno in un lampo
da “I Siciliani”, marzo 1983
Inimitabile destino della Sicilia, posta sempre al centro della storia, di tutte le sue civiltà e di tutte le sue violenze. Un’isola esattamente sulla linea di confine fra due mondi eternamente diversi e nemici, l’Europa e l’Africa, e perciò eterno luogo di battaglia, il posto della confluenza perfetta fra gli interessi militari, economici, politici, persino culturali dei popoli che avanzavano dal mare o calavano dal continente. Chi era padrone della Sicilia era certamente protagonista della civiltà del suo tempo.
Fra l’altro era una maniera suggestiva e romantica di fare la storia, poiché venivano qui a farsi la guerra, lontano dalle loro case e palazzi, reggie e campi di grano, sulla terra dei siciliani, gli esseri umani presi nel mezzo delle battaglie, calpestati dai cavalli, massacrati alla fine di ogni assedio vittorioso o d’ogni battaglia perduta, erano soltanto siciliani, così le donne stuprate, i bimbi decapitati, i vecchi chiamati a seppellire i morti, le case distrutte, i monumenti abbattuti, i palazzi incendiati. Decidevano, proclamavano: andiamo a conquistare il nostro tempo. E venivano in Sicilia, partivano da due o tre luoghi diversi della terra, cartaginesi, greci, romani, oppure saraceni, svevi e angioini, oppure francesi, spagnoli, inglesi e tedeschi insieme.
Anche nell’ultima guerra per decidere le sorti del conflitto mondiale dovettero prima scannarsi per conquistare la Sicilia; all’appuntamento c’erano tutti, americani, tedeschi, inglesi, canadesi, australiani, italiani, marocchini, indiani, polacchi, persino mafiosi e assassini tirati fuori da Sing Sing. Bombardarono con i cannoni, le fortezze volanti, le corazzate, demolirono città e paesi, massacrarono decine di migliaia di donne e bambini, svuotarono anche i magazzini del frumento, per un mese a Catania molti sopravvissero cibandosi con bucce di fico e scorze di cetriolo.
Io ero un ragazzo e rimasi ferito sotto un bombardamento aereo che distrusse il mio paese. Ebbi una gamba e un braccio spezzati, e un occhio quasi lacerato da una scheggia. Mi tennero una settimana in un ospedale da campo, mi ricucirono le ferite e tolsero le schegge senza anestesia. Ci davano un pomodoro al giorno per sopravvivere, dopo una settimana finirono anche i pomodori. Allora scappai; avevo ancora le stesse bende insanguinate e putrefatte del primo giorno, avevo perduto dieci chili, con quella gamba spezzata percorsi venti chilometri per tornare al mio paese, volevo soprattutto disperatamente sapere se mia madre era ancora viva.
Quando arrivai alla periferia del mio paese distrutto, c’erano i soldati inglesi che rastrellavano i vecchi contadini e i ragazzi delle campagne. Presero anche me e mi dettero una vanga. «Seppellisci quei morti!» dissero. Lungo la strada, accanto al cimitero, c’erano quattrocento miei compaesani morti nel bombardamento di sette giorni prima, una montagna di corpi spezzati, divelti, gonfi, dilaniati, putrefatti, e in mezzo a loro c’erano esseri umani che per anni io avevo salutato per strada, ragazzi con cui avevo giocato, certo anche miei compagni di scuola, nessuno tuttavia riconoscibile poiché nessuno aveva sembianza umana. Con le baionette innestate i soldati inglesi ci spinsero verso quella cosa orrenda. «Seppelliteli!». Con i bulldozer avevano scavato un’immensa fossa in un campo. Io ero un ragazzo, con la gamba e il braccio spezzati, una crosta di sangue su mezza faccia e almeno cinque o sei schegge ancora dentro che l’ufficiale medico non aveva avuto tempo di estrarmi, pesavo altri dieci chili di meno e soprattutto ero convinto che sarei morto per la fame. Ero cioè in uno di quei momenti eccezionali della vita (può capitare una volta, talvolta non capita mai) in cui ci si sente disposti a un gesto di eroismo. Perciò finalmente dissi: «Perché io?». E l’ufficiale inglese, con la benda bianca sul naso e il berretto rosso disse dolcemente su per giù: «because you fall the war and those are your dead people!». Pressappoco: perché tu hai perduto la guerra e questo è il tuo popolo sconfitto!
Solo molto più tardi nella vita capii che per tremila anni innumerevoli eserciti si erano dati battaglia per conquistare la Sicilia e che comunque i siciliani erano stati sempre sconfitti e avevano dovuto alla fine sempre seppellire i loro morti.
Questo concetto mi si para perfettamente dinnanzi, autentica verità storica, al cospetto della cosiddetta sindrome-Comiso, cioè della installazione della base di missili nucleari in Sicilia e di tutto quello che sta accadendo intorno. La viltà, anzi la vile menzogna del mondo politico italiano, la impaurita inerzia dell’opinione pubblica italiana dentro la quale ognuno tende ad arroccarsi in cima alla propria montagna nella speranza che i saraceni si limitino a menare strage nella valle, e la sprezzante, quasi crudele indifferenza (sprezzante perché non ha dato spiegazione di niente; e perché crudele lo vedremo subito dopo) degli alti comandi militari che hanno adottato la inaudita soluzione: invece cioè di dotare le difese del Mediterraneo di altri due sommergibili atomici, con missili nucleari, installare la base a Comiso, nel centro della Sicilia, esponendo l’intera regione e tutti i suoi cinque milioni di abitanti a un pericolo mortale. E qui sta il punto: poiché nell’ipotesi atroce di un conflitto fra grandi potenze (dunque né voluto, né deciso dai siciliani) non è Comiso e il suo hinterland – 50-70 chilometri di raggio – a correre il rischio di sparire in un globo di fuoco, ma tutta la Sicilia.
Qui, sia chiaro, non si sta facendo alcun discorso di politica internazionale, poiché non vedo come possa esistere idea o ideale (a meno della venuta di un nuovo Cristo) tale da turbare o deformare l’equilibrio dei massimi sistemi politici ed economici mondiali. La Nato esiste e l’Italia ne fa parte per libera scelta parlamentare; ovvio quindi che sia fedele ai principi e alle necessità strategiche della grande alleanza occidentale. Qui si discute semplicemente – come è nostro inalienabile diritto – la vita e la morte della Sicilia e dei siciliani, e quanto sia giusto, anche strategicamente, scegliere Comiso per la installazione di una base nucleare, e quanto infine sia morale ingannare la nazione, i siciliani innanzitutto, continuando a far capire che, nell’ipotesi spaventosa di una guerra, solo Comiso sarebbe bersaglio di totale distruzione. Il ragionamento che segue (che non rivela alcun segreto militare ma è frutto di semplice logica) dimostra infatti esattamente la terribile verità contraria.
Ora è chiaro che, al momento in cui si decida di installare una base di missili nucleari in un territorio delimitato, nessuno stato maggiore, pur formato da paraplegici, stabilirebbe di mettere gli ordigni, ammucchiati tutti insieme in uno spazio ristretto e ben determinato, anzi addirittura pubblicizzato da polemiche, articoli, inchieste, pubblici dibattiti. Già è strategicamente suicida (o idiota se più vi piace) installare una base missilistica su uno spazio individuato e su un’area di pochi chilometri quadrati, poiché significa segnare un cerchietto su una carta geografica, con ordinate e coordinate, e consegnare il progetto all’eventuale nemico: ecco, questo è il vostro bersaglio, potete perfettamente puntare i vostri missili atomici. All’occorrenza premete il pulsante. Ma sarebbe sommamente inutile concentrare in questa base, distruggibile comunque implacabilmente in meno di tre minuti, anche le rampe di lancio e relativi ordigni nucleari, cioè destinare all’annientamento certo, non soltanto il territorio prescelto, ma anche gli stessi mezzi bellici di offesa e ritorsione per i quali la base è stata realizzata. Così fosse il comando supremo della Nato sarebbe una pura convocazione di mentecatti. Un po’ come quegli strambi giocatori della infantile battaglia navale sui vecchi quaderni a quadretti, giocata al riparo da pile di libri e vocabolari, i quali ammucchiavano corazzate, incrociatori e sommergibili tutti in un angolo. Basta la solita corazzata di sondaggio dell’avversario e la partita finisce in tre mosse.
E non crediamo che i reggitori delle sorti militari dell’Occidente siano tali. Nello studiare le posizioni più opportune per una base missilistica, non gliene fotte decisamente niente della sorte di un territorio, del destino delle città, magari nobilissime e antiche che per millenni sono sopravvissute a inondazioni, assedi, pestilenze, terremoti, né della vita di milioni di esseri umani che abitano in quelle contrade; tanto, antiche città e esseri viventi sono italiani, anzi peggio, stavolta sono siciliani, ci sono molti mafiosi in mezzo a loro; ma quanto a mettere tutti insieme in bel mucchio, su quel bersaglio predestinato, tutti i missili atomici, crediamo proprio che siano stati molto più saggi. Cinismo e saggezza infatti possono coabitare. E appunto secondo saggezza hanno certamente deciso di decentrare l’autentico deterrente di offesa-difesa, cioè sparpagliare i missili atomici in luoghi ben distanti dalla base di Comiso, quanto più lontani e mimetizzati possibile in modo da sfuggire certamente ad un primo attacco contro la cosiddetta base madre, e costituire comunque un bersaglio imperscrutabile e difficilissimo, tale che, scampando i missili alla prima imprevedibile aggressione nucleare, possono essere subito utilizzati per un’immediata azione di ritorsione atomica.
Un missile atomico non è una corazzata; con tutto il suo vettore terrestre è un poco più grande di un Tir, può viaggiare in qualsiasi strada o campagna, essere facilmente mimetizzato in un bosco, nella vegetazione di un fondo valle, in una caverna, in un grande capannone industriale, perché no in una vecchia chiesa requisita come magazzino, in un vecchio tunnel ferroviario. Perciò è logico, perfettamente, inesorabilmente logico, inoppugnabilmente, spaventosamente logico che i missili atomici in dotazione alla base di Comiso saranno decentrati in tutta la Sicilia, in ogni luogo si presti ad una completa mimetizzazione e ad un costante controllo militare. La base di Comiso, quella attorno alla quale schiuma l’ingenua protesta di migliaia di pacifisti, avvengono i sit-in delle femministe, sfilano con cartelli e bandiere i cortei dei lavoratori, è praticamente solo una semplice base logistica e organizzativa, dove avranno sede gli uffici, gli alloggi per la truppa, il villaggio per le famiglie di militari, gli schedari, la mensa, le cucine, la fureria, l’ospedale, il circolo ricreativo, i campi da tennis e la piscina per la giusta ricreazione, forse anche un paio di night club per scapoli, le piste di atterraggio per i carghi volanti che trasporteranno vettovaglie e truppe, probabilmente nemmeno le centrali elettroniche per intuire l’eventuale attacco nemico, centrali di calcolo e punteria per elaborare in pochi secondi, quanti ne restano dall’allarme al grande lampo, i dati di reazione, difesa e offesa. E forse nemmeno i rifugi atomici per coloro che dovranno sicuramente sopravvivere per guidare il lancio dei missili. I missili dislocati in tutta l’isola, in boschi, caverne, tunnel, fondovalli, capannoni e chiese sconsacrate.
Comiso, come base nucleare, è un grande bluff del quale gli alti comandi e probabilmente anche gli strateghi politici italiani sorridono da due anni.
E sorridono tutti quegli intrepidi intellettuali e scienziati, sociologi, firmano manifesti contro la base di Comiso, e partecipano alla marcia della pace, fanno i primi dieci chilometri marciando col pugno levato, e poi sgattaiolano in un vicolo dove hanno nascosto la BMW (la Sicilia maledizione è così lontana, c’è anche la mafia, vaffanculo!) e a sera se ne stanno in un salotto o una bettola romana a disegnare cartine e fare calcoli per valutare il raggio del fall-out di un ordigno nucleare che colpisca esattamente Comiso, e quante altre città, paesi e villaggi distruggerebbe tutt’intorno, e quanti milioni di siciliani del territorio morirebbero subito bruciati dal lampo, e quanti altri contaminati potrebbero orribilmente sopravvivere, ciechi, mutilati o rimbambiti. C’è sempre qualcuno che alla fine conclude positivamente che – meno male – alla fine le correnti del vento trasporterebbero la nube radioattiva verso il mare in direzione dell’Africa.
Qualcuno fa anche dello spirito: così Gheddafi non ci potrà mai colpire con un’atomica perché dopo due giorni la nube radioattiva gli rotolerebbe indietro. Alla maniera di Angelo Musco («Domani il sole illuminerà uno dei nostri cadaveri!» – «Cumpari e ssi chiovi?») l’imbecille di turno conclude: E se cambia il vento?
La verità è che gli alti comandi – e naturalmente anche alcuni politici italiani di vertice – sanno che la situazione è ben più terrificante. I missili atomici in dotazione ufficiale alla base di Comiso, saranno dislocati in tutta la Sicilia, sicché in caso di un conflitto, l’aggressore non colpirà soltanto l’impianto di Comiso, ma sarà costretto a colpire tutta la Sicilia, ogni luogo, ogni paese, bosco, profonda vallata, montagna dove i missili atomici potrebbero essere nascosti. La previsione è logica come un teorema: cinque, sette, dieci testate atomiche si abbatterebbero su tutta l’isola per distruggere sicuramente il potenziale di offesa nucleare; Non una città o una provincia, o territorio più remoto potrebbe sfuggire alla tragica successione di lampi atomici. L’ipotesi è di una distruzione totale per milioni di siciliani. Questo va garbatamente spiegato anche a catanesi, palermitani, trapanesi i quali magari sulla questione avranno avuto un maligno, spontaneo pensiero: tanto Comiso è nel centro degli Iblei. Certo mi dispiace, però… Comunque una bella lettera di protesta, voglio scriverla. Subito, anzi domani, per ora mi vedo in TV Pippo Baudo con i Siculissimi!
LA SCONFITTA SOCIALISTA È DURATA CENTO ANNI
La sconfitta socialista è durata cento anno
da “I Siciliani”, aprile 1983
Per tradizione storica il partito socialista rappresenta la forza politica che ha avuto un peso determinante nella evoluzione siciliana. C’è anche una profonda ragione sociale che diventa anche un fatto culturale. Negli ultimi centocinquant’anni l’isola infatti è stata divisa, spesso insanguinata dallo scontro fra due forze totalmente opposte che nascevano proprio dalla profondità della società meridionale come era stata strutturata dalla storia: da una parte le casate nobiliari, i grandi proprietari terrieri che rappresentavano appena il dieci per cento della popolazione e tuttavia possedevano quasi il novanta per cento di ogni ricchezza immobiliare, detenevano la totalità delle cariche, amministravano i pubblici uffici, dalla giustizia al fisco; e dall’altra il poverissimo popolo siciliano, le masse oscure degli operai, manovali, braccianti, contadini, autentici servi della gleba, i quali non possedevano niente, spesso non sapevano nemmeno leggere e scrivere.
E in realtà la società siciliana degli ultimi centocinquant’anni è stata sconvolta periodicamente da scontri di inaudita violenza e ferocia che avevano la tragica vastità dell’evento storico e che tuttavia la storia d’Europa ha relegato ai suoi margini. Questa isola lontana, rapinosa e selvaggia, arcana e terribile che il visitatore sfiorava appena lungo le coste e il cui interno era un’anima oscura dove nessuno osava penetrare. Chi ha mai saputo effettivamente valutare, sotto il profilo storico, le rivolte dei contadini, esplosioni di collettiva disperazione umana e le immediate repressioni dei grandi padroni ai quali lo Stato (una volta a Bronte persino rappresentato da Garibaldi) prestava le sue truppe per restaurazioni sanguinose. Autentiche ondate ricorrenti nella storia: le moltitudini contadine armate di falci, roncole, bastoni, tridenti che sembravano sommergere di colpo la società, poi lo sgomento, lo scoramento di chi non aveva nemmeno la minima cultura sufficiente per governare il proprio destino, la dispersione, la fuga. E dal riflusso di queste ondate che si lasciavano dietro corpi umani fucilati in mezzo alle piazze, ombre di impiccati, riemergeva l’immobilità degli antichi padroni, il nobile marchese-principe-barone, conte-duca, il grande feudatario, il prete.
In questo contesto i fasci siciliani rappresentarono un avvenimento di cui forse solo ora si sta cercando di riconoscere la grande forza umana e morale, certamente la prima grande rivoluzione proletaria d’Europa con la quale i poveri tentarono di proporre un tipo di società più giusta, diritti dell’uomo che la rivoluzione francese avevano intravisto e che la restaurazione durata tutto un secolo aveva cancellato. Fu un grande evento morale e politico, un grido che avrebbe dovuto far tremare l’Europa e che si spense nel Meridione d’Italia. E fu anche per la ferocia della repressione una grande tragedia popolare di cui quasi nessuno si accorse.
Ecco, la funzione storica del socialismo nel Sud, comincia probabilmente ad emergere in quel tempo. In una società così profondamente divisa e lacerata, senza possibilità di mediazione, senza capacità di soluzione che non fosse la soppressione degli uni o degli altri, i socialisti si posero come unica proposta storica possibile. In realtà, fra le due forze contrapposte, stava crescendo, o meglio stava assumendo fisionomia, un terzo strato sociale: la piccola borghesia delle città, gli artigiani che sapevano leggere un giornale, gli studenti, gli impiegati, i piccoli coltivatori che riuscivano finalmente a strappare al padrone un primo lembo di terra, i maestri elementari, i piccoli professionisti, i muratori, fabbri, falegnami i quali non sopportavano più il prepotere dei grandi padroni e nemmeno però desideravano che la trasformazione accadesse con una rivolta che fosse anche una strage. Era un grande ceto emergente, composto da una moltitudine di cittadini senza omogeneità culturale o sociale e tuttavia accomunati da un dato fondamentale, cioè avevano già fatto una prima conquista e non la potevano perdere, possedevano già qualcosa da difendere, fosse soltanto il loro lavoro, la capacità produttiva, la piccola clientela, le speranze culturali. Se fossero stati costretti a scegliere, avrebbero scelto la rivoluzione. Ma sapevano altresì che essa sarebbe finita con un inutile massacro ed una spaventosa sconfitta.
Il socialismo che nasce nel Meridione è dunque proletario certamente, ma anche astuto, abbastanza acculturato, sicuramente animato da grandi ideali umani ma senza ferocia, aggressivo e prudente, più disposto alla ragione, ama più il grande comizio popolare che le barricate. Gli anni di De Felice in Sicilia e nel Meridione rappresentano questo momento di crescita storica. Fra due grandi istanze politiche, l’una troppo cieca ancora e senza struttura, l’altra troppo gelida e crudele, il socialismo si pone come unica possibilità di soluzione politica.
Gli eventi storici spezzano questo sogno: la prima guerra mondiale, gli anni del fascismo, la seconda guerra mondiale, gli anni del dopoguerra che per qualche anno ristabiliscono crudamente la contrapposizione antica: i grandi latifondisti e i grandi mafiosi da una parte, la disperata miseria popolare dall’altra. E’ in questi anni che i socialisti smarriscono fatalmente la loro identità, sopraffatti dalla violenza della lotta e dalla personalità dei contendenti e dalla loro stessa immutata violenza: da una parte i comunisti che hanno il fascino della grande rivoluzione definitiva e somatizzano qualsiasi alleato o compagno, e dall’altra parte semplicemente soltanto gli anticomunisti, cioè la democrazia cristiana che non ha programmi ma ha saputo scegliere lo slogan vincente.
Presi nel mezzo i socialisti non hanno la forza, o più semplicemente il coraggio storico di proporsi agli italiani come terza soluzione, quella appunto della ragione, che sia cioè sempre giustizia nella libertà. Forse non hanno nemmeno in quel momento un leader storico che sappia lucidamente interpretare questo grande ideale di evoluzione e indipendenza. Finiscono schiacciati dall’una parte e dall’altra, prima dagli uni poi dagli altri. Siamo ai nostri giorni cioè ad un altro momento storico perfetto per l’ideale socialista. La lotta è dura e difficile come sempre, quando si tratta di andare all’assalto per conquistare cime perdute. Molti dovranno cadere (politicamente) per strada. Bisogna avere coraggio per pagare i prezzi necessari alla storia.
SINDROME CATANIA
Sindrome Catania
da “I Siciliani”, aprile 1983
Sindrome Catania è quel tale stato d’animo per il quale, da un anno a questa parte, ovunque in Italia il siciliano viene innanzitutto ritenuto catanese. Ciò perché qualunque cosa sia accaduta in questi ultimi tempi in Sicilia, essa è accaduta a Catania o l’hanno fatta i catanesi. Sono catanesi i cavalieri del lavoro che hanno fatto impazzire mafiologi ed economisti di mezza Europa, che gestiscono ognuno centinaia di miliardi, che costruiscono in ogni parte della Sicilia e dell’Europa, dell’Africa, dell’America del Sud, autostrade, dighe, ponti, grattacieli, chiese, centrali nucleari, chiodi e locomotive. E’ catanese l’uomo che viene braccato sotto l’accusa di aver organizzato e personalmente eseguito con un Kalashnikoff l’assassinio del generale Dalla Chiesa. E’ catanese la Procura generale sottoposta a inchiesta del consiglio superiore della magistratura per accertare se clamorose indagini su evasioni fiscali e collusioni mafiose abbiano subito colpevoli ritardi o siano state addirittura imboscate. Tutto sommato è anche catanese la cooperativa di giornalisti che realizza questo giornale, unica cooperativa giornalistica in tutta Italia che possieda i suoi strumenti editoriali, sia proprietaria del giornale che realizza e non abbia alle spalle alcun potere politico e finanziario che possa deviarla dalla verità. E’ catanese l’unico teatro stabile del Sud: nemmeno Napoli e Palermo che hanno maestà e presupponenza di autentici capitali ci sono riuscite. E’ catanese altresì quel tipo di Siciliano, che gli altri italiani ritengono il più perfettamente siciliano ma che non rassomiglia ad alcun altro siciliano, che non è triste, né superbo, né tragico, né lamentoso, ma sempre allegro, sempre sprezzante, sfottente, ridente. Catanese è infine il dialetto siciliano che gli altri italiani conoscono, lingua parlata da Giovanni Grasso, Angelo Musco, Turi Ferro, una maniera di parlare nella quale non si capisce mai se il catanese stia parlando sul serio o da un momento all’altro ti scoppi a ridere in faccia.
Non è senza motivo dunque che gli italiani abbiano la sindrome Catania, e allora noi senza voler fare scienza della società, e nemmeno tentare di definire se questa sindrome sia inganno o verità, dovuto rispetto o malattia, e quanto questa sia grave o inguaribile, cercheremo più semplicemente di capire cos’è Catania, anzi più esattamente chi è il catanese. E quanto egli sia diverso dagli altri nel bene e nel male.
Dicono che Catania, onde potersi confrontare con Palermo, anzi paradossalmente affrancarsi da Palermo, alla fine si sia inventata la mafia. Per entrare da protagonista negli affari giganteschi della droga, per proteggere politicamente e giudiziariamente i crescenti imperi finanziari, e infine per poter eliminare chiunque (leggi Dalla Chiesa) avesse in animo di opporsi. La realtà probabilmente è un’altra. La realtà è che il catanese è diverso (ecco la sindrome) da ogni altro italiano anche nella criminalità, anzi della genesi stessa della criminalità Le ragioni del catanese sono infatti esattamente il contrario di quelle che muovono la violenza criminale in altre grandi città italiane. Ad esempio Milano è devastata da violenze esterne che arrivano nella metropoli contemporaneamente al flusso migratorio del Sud: decine, centinaia di migliaia di individui che Milano chiama per fornire di braccia la sua evoluzione industriale, una moltitudine di meridionali per lo piú miseri braccianti, contadini, pecorai, manovali, gente povera sradicata da paesi che sembrano di un altro universo e che si porta appresso la speranza di un riscatto sociale, il sogno di una casa confortevole e di un buon salario, ma anche la disperazione di un viaggio senza ipotesi di ritorno e quindi una capacità di violenza dinnanzi a un eventuale inganno. E la grande metropoli (diciamo Milano per citare anche Torino) non riesce ad accogliere tutti, gelidamente accoglie soltanto la forza umana e appaga i sogni di quanti le sono utili o indispensabili; gli altri, i superflui, li rifiuta, li respinge verso i ghetti sordidi della periferia, nei tuguri dove le famiglie si ammucchiano in un unico ambiente, negli stanzoni dove venti persone, calabresi, siciliani, napoletani, dormono insieme peggio che nei lager di Dachau.
Gli alien della miseria, ignoranza, dolore, violenza. Dopo sei mesi sono disponibili a tutto pur di sopravvivere, pur di non tornare nel Sud, nell’antico paese spopolato, a bivaccare dinnanzi a un bar con cinque sigarette soltanto in tasca, ad attendere un lavoro che non arriva, a studiare tutte le arti del leccaculo per un posto di bidello. Trentamila, cinquantamila, forse centomila emarginati, nessuno riesce a capire nemmeno quanti siano, poiché arrivano continuamente, scompaiono, tornano. Basta un criminale di piccolo genio, basta soltanto che uno di loro abbia maggior carica di violenza, più astuzia e fantasia, per radunare attorno a sé un gruppo disponibile ad ogni malvivenza: rapine, scippi, estorsioni, contrabbando, sequestri. Da ogni parte di questa periferia muovono alla conquista della metropoli che li ha chiamati con la seduzione delle sue fabbriche e però li ha respinti, e perciò ingannati. Cioè Milano (o Torino) viene assalita dagli altri, dai diversi, dagli alien .
Bastano le definizioni popolari: «la famiglia dei calabresi», «la cosca dei palermitani», «i fratelli di Mergellina», «il clan dei catanesi» tutti lanciati all’assalto delle grandi prede che la metropoli sprezzante, la grande città gelida e senza cuore, e tuttavia inerme e indifesa, offre alla cupidigia dei disperati: le case da gioco clandestine, i night club, la prostituzione, il racket delle estorsioni, il contrabbando della droga. Spesso in lotta mortale gli uni contro gli altri, per il predominio criminale, ma tutti insieme con eguale ferocia, contro l’immensa città che gronda denaro, trasuda opulenza, pullula di vetrine, grattacieli, empori, ciminiere, e non ha avuto nemmeno il pudore di riconoscere la loro miseria.
A Catania il processo è incredibilmente l’opposto. A Catania negli ultimi quarant’anni non sono arrivati i miserabili dall’interno dell’isola, ma decine di migliaia di famiglie borghesi le quali non cercavano dignità civile, ma prestigio sociale nella più grande città dell’oriente siciliano: agricoltori che vendevano le loro terre per trasferire i piccoli capitali in speculazioni edilizie, giovani professionisti, medici, avvocati, architetti, ingegneri che fuggivano la tetraggine della provincia per scoprire ben altri spazi di lavoro e di affermazione, commercianti che vedevano la loro piccola economia vacillare nei paesi sempre più spopolati dalla emigrazione, e radunavano le forze per tentare nuova fortuna in una città che era l’unico grande emporio di approvvigionamento per almeno sei province e per tre milioni di abitanti, studenti che interrompevano gli studi universitari perché avevano trovato una collocazione politica.
Tutta gente avida, forte, talvolta rapace, spesso dotata di talento, con quella limitata ma precisa preparazione culturale della provincia che riempie i lunghi tedii invernali di letture e polemiche intellettuali, gente comunque animata da fantasia e spirito di iniziativa, indotta dallo stesso complesso di inferiorità ad una aggressività costante, in tutti i settori: gli ospedali, la scuola, l’edilizia, i commerci, le professioni, gli appalti, la politica.
In quarant’anni gli immigrati e comunque i più abili, preparati, aggressivi, intelligenti, si sono impadroniti della città, conquistando almeno il settanta per cento di quel livello sociale che conta e dirige un grande centro civile: le docenze universitarie, le cariche di partito, le clientele professionali, le cliniche, le costruzioni, gli appalti, gli alberghi, le presidenze, le banche. Eccoli i cavalieri del lavoro! Solo un paio di loro sono catanesi, gli altri arrivano dalla provincia, da piccoli paesi, e arrivano quasi sempre con dignitosa povertà, in punta di piedi, con il silenzioso garbo che ha sempre il provinciale che si accosta a Catania e teme che il suo accento ne possa svelare le origini, dapprima una bottega, un piccolo appalto, l’ammissione al salotto borghese, la benevolenza del politico, un negozio più grande, un altro appalto più vasto, un grande magazzino, un palazzo, dieci, cento palazzi, l’industria, l’amicizia del sottosegretario o ministro, dell’alto magistrato, del funzionario di vertice, la villa regale e misteriosa, il grande motoscafo bianco. Mi piace abitare in quell’albergo, è aristocratico e riservato. Me lo compero! Catania non sarebbe Catania se non avesse avuto i cavalieri del lavoro, i quali hanno dato una misura aritmetica all’anima catanese; il denaro, tutto si può fare con il denaro, comperare potenza, buona salute, prestigio e amicizia, e una misura psicologica: l’individualismo, il piacere di essere solo e diventare il solo padrone.
I cavalieri del lavoro vennero in povertà e silenziosamente dai lontani centri della provincia, erano stranieri e tuttavia interpretano perfettamente l’anima catanese, anzi ne danno rappresentazione. Qui c’è la sindrome. Mentre gli immigrati infatti si impadronivano di Catania, contemporaneamente si verificava un fenomeno quasi magico, anche questo tipicamente catanese e che appartiene a pochissime altre città italiane, forse solo a Milano: cioè gli immigrati smarrivano velocemente la loro identità provinciale, le abitudini, le superstizioni del loro territorio, persino la cadenza dialettale, e diventavano perfettamente catanesi, nel linguaggio, nella presupponenza, nello sfrenato individualismo, persino nell’allegria del rapporto con la vita. Catania ha questa facoltà straordinaria: si fa conquistare docilmente da chi arriva e contemporaneamente lo trasforma e lo fa suo.
Questa moltitudine umana arrivata da Caltanissetta, Ragusa, Agrigento, Enna, Caltagirone, Licata, Modica, Lentini, Augusta, decine di migliaia di individui che si portavano appresso non soltanto le famiglie ma anche tutti i loro beni economici, ha dilatato l’economia della città e la sua stessa estensione territoriale. Dapprima ha acquistato gli appartamenti migliori del centro, poi ha edificato migliaia di nuovi terrificanti palazzi, quindi si è impadronita di tutta la zona pedemontana, che sovrasta la città, e dell’intera riviera fino ad Acitrezza, dove ha costruito villaggi residenziali con piscine, campi da tennis, parrucchieri, boutique, alimentari; le famiglie possono abitarci senza necessità nemmeno di uscire, il principio è quello stesso del ghetto, però confortevole, soave, al riparo da ogni pericolo. Tutta la grande plaga verde, da Acicastello ad Acireale, fino a San Gregorio, Gravina, S. Giovanni La Punta, Mascalucia, Tremestieri, si è popolata di villaggi così, quasi invisibili: appaiono per un attimo fra un giardino e l’altro e scompaiono fra una collina e l’altra, in quel misterioso Eden abitato dai duecentomila catanesi più ricchi.
Catania ha conglobato tutti gli splendidi paesini che le facevano corona, li ha trasformati in altrettante città satelliti dalle quali, ogni giorno, per strade diverse, calano tutte in una volta cinquantamila automobili, e all’imbrunire se ne risalgono.
Sono gli industriali, i titolari dei grandi commerci, gli appaltatori, uomimi politici, alti magistrati, grandi professionisti, docenti dell’Ateneo, deputati, architetti, funzionari. Nel vecchio centro della città sono rimasti gli impiegati, studenti, operai, artigiani, piccoli commercianti, droghieri in mezzo ai quali non è più possibile distinguere il catanese nuovo dall’antico: costui sospinto sempre più in basso, verso la pianura, verso Sud, negli sterminati quartieri popolari che hanno nomi mitici e terribili, San Cristoforo, zà Lisa, Fortino, Antico Corso, un dedalo di strade, vicoli, cortili, palazzi fatiscenti, ai quali si sono addossati i nuovi quartieri popolari, subito infami e tristi, nuovo San Berillo, Librino, Monte Po, i duecentomila catanesi più poveri, pescatori, manovali, braccianti, in un territorio dove i servizi sociali, le condutture idriche, le fogne, le scuole, sono ancora quelle di cento anni fa.
Qui, in questa serie di lager, dove non c’è nemmeno spazio per una partita a calcio fra ragazzini, è maturata la criminalità catanese la quale, come tutte le cose di questa singolare città, ha avuto una ragione delinquenziale, diremmo addirittura una immagine sociale e politica, completamente diversa da ogni altra: migliaia, forse decine di migliaia e quasi tutti giovani. Figli di quella parte più povera della popolazione che si è fatta letteralmente espropriare della città, ricacciati ai margini nella indifferenza quasi brutale delle pubbliche amministrazioni, si sono lanciati alla riconquista di Catania: prima lo scippo, il furto, il borseggio, poi la rapina al passante, alla ricevitoria del lotto, alla banca, infine l’estorsione.
Qualunque cosa si dica o si neghi, il novanta per cento delle iniziative economiche o degli esercizi commerciali, da anni pagano una tangente criminale. Ogni tanto la città si insanguinava per uno scontro fra gruppi che si contendevano la supremazia su un quartiere. Centinaia di omicidi. Fra gli assassini e le vittime mai un forestiero, sempre catanesi. Finché i gruppi hanno cominciato ad integrarsi per gestire interessi criminali sempre più vasti, gli scontri sono diventati più feroci, autentiche battaglie con mitra e bombe a mano. La mafia è nata così, quando i clan vincenti sono stati fatalmente chiamati a soccorrere il traffico di droga, decine e centinaia di miliardi che sono costretti a sfiorare Catania.
Una genesi criminale folgorante. Questa è una città nella quale, in pochi anni, un piccolo politico di paese può diventare governatore di un territorio, e un oscuro appaltatore di provincia può trasformarsi in cavaliere del lavoro che fa diventare oro tutto quello che tocca, e un amabile imprenditore, amico dei buoni salotti borghesi, che fino a qualche mese fa stringeva la mano a prefetti e deputati, essere accusato di aver ucciso Dalla Chiesa. Sindrome Catania.
La sindrome sta nella diversità. Quasi un modo diverso di intendere la vita, anzi il piacere della vita, il rapporto fra l’uomo e gli altri uomini. Per esempio a Catania non ci sono mendicanti. Anche questo, in una Italia dove l’accattonaggio è una tradizione quasi popolare (l’accattone, con la prostituta e il ladro appartengono a tutta una letteratura italiana romantica) è un fatto straordinario. Ogni grande città italiana ha i suoi mendicanti, anzi il suo genere di mendicanti: Milano l’accattone ubriaco e fastidioso, che ti segue in mezzo alla folla e ti sta dietro per un chilometro, cerca di salire anche sul tuo tassì; Roma pullula di mendicanti che hanno carattere residenziale, ogni strada ha il suo, come Londra ha il policeman di quartiere, passeggiano lentamente, alla lunga gli abitanti della zona provano anche soddisfazione a essere riconosciuti e salutati con rispettivo titolo accademico; a Napoli in piazza Garibaldi c’è un mendicante che fa il giro di tutti i ristoranti tre volte al giorno travestendosi in tre guise diverse, da ammalato grave, fino a mezzogiorno, da frate cappuccino con la cassetta degli oboli nel pomeriggio, e da disoccupato ebete la sera; a Palermo nel viale Ruggero di Lauria c’è un uomo di mezza età, triste, untuoso, cadente, che chiede l’elemosina fino alle sei del pomeriggio, poi accende una sigaretta, si mette in testa un berrettino militare e fa il guardamacchine, tratta con tristezza ma con maestosa arroganza (il palermitano ha sempre la maestà del suo stato), lo stesso che un’ora prima gli ha fatto l’elemosina. A Catania gli ultimi tre mendicanti famosi scomparvero negli anni Sessanta, forse uccisi da una totale mancanza di elemosine, forse sopraffatti dalla vergogna di essere i soli accattoni in una città che ormai provava solo disprezzo per la povertà. Uno era cieco, autenticamente cieco poiché gli mancavano tutti e due gli occhi, il quale andava adagio adagio per via Umberto, con un pastrano militare, un mandolino e un cane. Il cane andò sotto un autobus, il mandolino glielo rubarono, il cieco scomparve. Un altro era un uomo che si diceva fosse stato un ex cocchiere, impazzito per la morte della sua vecchia giumenta. Si diceva che ne fosse innamorato. Chiedeva l’elemosina per via Etnea, era piccolino, cadente, con un lungo naso come Jimmy Durante, ogni tanto però faceva un terribile nitrito, s’impennava a mo’ di cavallo e cominciava a galoppare fra la folla. Gli correvano tutti appresso. Il terzo era un grande vecchio sordomuto, con un’immensa barba bianca e un violino, camminava da una chiesa all’altra suonando il violino, ma poiché lo strumento non aveva corde egli cercava, con un suono stridulo di gola, di imitare la musica. Essendo sordo non si capiva dove mai avesse ascoltato musica e quindi come potesse eseguirla, e infatti emetteva solo un terribile lamento. Lo ritennero tutti sempre un imbroglione (in dialetto si direbbe un tragediatore) e in una città come Catania, dove ognuno si ritiene d’essere il massimo dei recitanti, era un difetto imperdonabile. La sua uscita di scena fu memorabile, salì sui gradini della Collegiata e volgendosi alla folla della messa domenicale gridò: «Tutti stronzi!».
Ecco, bisogna a questo punto capire quanto e come il carattere di un catanese possa essere diverso da ogni altro. La misura della sindrome. Affacciandosi da un balcone straniero, su una grande piazza per la quale passeggiano centinaia di sconosciuti d’ogni regione europea, dopo un quarto d’ora, solo a sentirli parlare e vederli muoversi, si può essere in condizione di dire: Quello è catanese! Infatti sta recitando. Parlando del catanese balza sempre il confronto con il palermitano. Il regno delle due Sicilie. Fra tutti gli italiani, infatti, catanesi e napoletani sono ritenuti i più recitanti. E’ vero, ma la differenza è profonda: due arti diverse. Il napoletano imbroglia, truffa, inganna per bisogno, e perciò con civiltà, educazione, bonomia, quasi che la vittima dovesse già sapere di essere ingannata e dovere prestarsi amabilmente al gioco: «Dovete scusare, grazie tante!». E il catanese invece per spavalderia, con la convinzione di essere più astuto, intelligente, fantasioso e perciò con una punta di disprezzo per la vittima: «Ma quanto sei coglione!»
In entrambi i casi c’è comunque alla base una ineguagliabile capacità teatrale. Fatto è che fra tutte le popolazioni italiane e probabilmente europee, catanesi e napoletani, per vocazione, per divertimento, per capacità psicofisica sono anche i più portati alla recitazione, cioè alla interpretazione di personaggi diversi da quelli che sono, e non a caso sono dunque le due popolazioni più teatrali. Gli piace, si divertono, ci riescono; pensate che formidabile teatro, ineguagliabile, sarebbe stato quello che avesse posto accanto Angelo Musco e Raffaele Viviani o sarebbe quello che riuscisse a porre, l’uno con l’altro, l’uno contro l’altro, sullo stesso palcoscenico Turi Ferro e Eduardo De Filippo.
C’è sempre una differenza sostanziale. Il napoletano fa teatro (e quindi nella vita imbroglia, finge, recita, ricamuffa) con sentimento, il catanese con ironia, il napoletano in fondo crede al personaggio che interpreta sulla scena o rappresenta nella vita, sia esso camorrista o mendicante, comandante di flotta come Lauro e malvivente come Michele o’ pazzo, collera, pietà, dolore, invocazione, devozione sono sentite e autentiche.
Il catanese invece sta dentro il personaggio con distacco, beninteso tecnicamente in modo perfetto, in modo che nessuno mai capisca come egli sia in realtà un altro, ma in verità se ne fotte, la sua volontà, anzi il suo più intimo piacere non è quello di commuovere gli altri, ma come volgarmente si suol dire, prenderli per il culo e quanto più tutto questo è perfetto, tanto più il catanese si diverte, e si ritiene effettivamente migliore. Lui individuo naturalmente. Poiché c’è anche questo. Che il napoletano, uomo solo, si sente partecipe di quella cosa segreta, fantastica che è l’essere napoletano, la napoletanità, il mondo straordinario di musiche, dolori, invenzioni, miseria, poesia, speranze, bellezza che è Napoli nel suo insieme, case, gente, mare, colori, violenza, mentre il catanese, pur essendo catanese perfettamente anche nello scheletro, ritiene di essere esclusivo cioè unico esemplare vivente con idee, pensieri, sogni, violenze, desideri, capacità evocatrici, potenza sessuale, fantasia erotica, istrioneria, genio di recitazione: sono impareggiabilmente suoi e di nessun altro. Tutti così, da Giovanni Verga allo spazzino, il genio e l’analfabeta. Sicché Catania è fatta da un milione di catanesi, tutti con la stessa anima ed ognuno convinto di avere un’anima propria, singola e ineguagliabile. C’è qualcosa di filosofico in tutto questo. Di positivo e negativo. Di attivo e passivo. La sindrome. Emanuele Kant ci si sarebbe rotto la testa.
Catania dunque integralmente siciliana tuttavia profondamente diversa da qualsiasi altra cosa o luogo, o popolazione, o difetto, o virtù dei siciliani. Il siciliano silenzioso, triste, duro, antico, maestoso come i palermitani, amaro come i nisseni, mite come i ragusani, sognante come i siracusani, e invece il catanese che parla sempre, ride, grida, sfotte, il catanese allegro, senza amore che non sia anzitutto per se stesso, senza sogni che non siano i suoi personali e inconfessabili, il catanese che nel profondo ritiene probabilmente perfezione erotica nutrire desiderio solo per se stesso. Questo catanese che per essere tale, certamente ha in dispregio la violenza e l’assassinio: essendo già il migliore, l’unico, che bisogno ha della violenza per dimostrarlo, basta l’ironia, ecco l’ironia dà veramente un senso compiuto e definitivo di perfezione all’individuo, homo katanensis, ironia per tutto, anche per la morte che è una cosa dovuta, trappola, scherzo, infamia, beffa organizzata da qualcuno che non si sa chi e non si sa perché, astuto e sfottente che si sente ancora più fantasioso, briccone, astuto e sfottente di un catanese e al quale va apposta altrettanta ironia, e se possibile anche uno sberleffo.
Il mese scorso è morto un amico mio, il medico diceva: ma no, stia sereno, roba da niente, una piccola nevralgia, ma lui aveva capito perfettamente che aveva solo due settimane, convocò gli amici, comunicò loro l’imminenza della morte, gli amici sapevano che era vero, ma finsero che fosse uno scherzo; ma smettila, ma vaffanculo! recitarono tutta la sera, si abbuffarono, andarono insieme a puttane.
La sindrome. Una città che ritiene di non aver bisogno della violenza, poiché gli basta l’ironia, che si inventa, e realmente diventa la prima città mafiosa.
FUNERALI DI STATO: AVANTI C’È POSTO
Funerali di Stato: avanti c’è posto
da “I Siciliani”, settembre 1983
C’è un personaggio a Palermo, al cui apparire, negli ultimi tempi, decine di migliaia di persone in attesa da ore, prorompono in un dilagante applauso. E, fra gli applausi, anche le grida di sdegno, le lacrime, le invettive, occhi furenti e pugni protesi. Nessun grande attore di teatro, in alcuna grande arena italiana, può vantarsi d’essere accolto con un applauso così appassionato e commosso. Questo personaggio, che crediamo si chiami Calogero, oppure Benedetto, è un signore di mezza età, gentile, triste, decorosamente vestito, di amabili modi e voce sommessa, il quale esercita quella professione che Amleto, nel suo famoso monologo col povero Yorik, definiva “interratore di sogni” e che gli organici comunali più aridamente qualificano: operaio di seconda categoria, addetto alle pompe funebri. Insomma becchino! Orbene il signor Calogero (o Benedetto) esercita questa onorata e indispensabile professione a Palermo, ed è il becchino (absit iniuria) al quale vien data mansione, alla fine delle esequie, di provvedere al trasporto del feretro fino al carro funebre. E’ appunto il signor Calogero che, sull’ultimo gesto del prete con l’aspersorio, “Pacem aeternam dona eis Domine…”, spegne rapidamente le candele, fa un lievissimo gesto ai suoi aiutanti affinché sollevino la bara e, così sempre muovendosi con occhi tristi (facies professionale) e piccoli passi gentili e gesti amabili, guida il feretro fino al carro, precedendolo di un passo al fine che questo ultimo cammino sia sicuramente rapido e tuttavia garbato. E’ lui, il signor Calogero, che dunque appare sempre per primo sulla soglia della chiesa, una frazione di secondo prima dell’apparire della bara.
Il signor Calogero ha fatto il suo lavoro con garbo e pietosa precisione, per il giudice Terranova, il vicequestore Boris Giuliano, il giudice Costa, il presidente Mattarella, il capitano Basile, il generale Dalla Chiesa, il capitano D’Aleo e il giudice Chinnici, sempre con perfetta educazione, gentilmente tenendo a bada ministri, vedove, orfani, presidenti della Repubblica, generalissimi, prefetti di ferro, sottosegretari e deputati: ed ogni volta apparendo sulla soglia della grande chiesa palermitana contemporaneamente al feretro. E’ stato lui dunque a godersi quell’immenso applauso, ultimo saluto di dolore, amore, collera, paura, disperazione, di decine di migliaia di cittadini piangenti e urlanti. E’ già miracolo che non si sia lasciato finora mai sconvolgere dall’emozione (un lampo di pazzia dinnanzi al trionfo, perché no?) e non sia scoppiato in una terribile risata in faccia a tutta quella gente, o addirittura (nella pazzia c’è sempre un lampo di verità), lassù dall’alto della scalinata come da una ribalta, non abbia platealmente ringraziato con un inchino per quell’applauso e, volgendosi umilmente, come sogliono fare le comparse per indicare i veri protagonisti dello spettacolo, se non addirittura l’autore, non abbia indicato alla moltitudine la piccola folla politica al seguito del feretro. Come a dire: amici, voi applaudite me per questo ennesimo capolavoro? Ma io sono solo il becchino, il buttafuori, il siparista! In mezzo a quella piccola folla di potenti della terra, i veri padroni della nazione, c’è probabilmente anche quello che ha scritto il copione. Colui che ha fatto uccidere, oppure sa chi ha ucciso e fatto uccidere, e dunque gli ha dato il suo alto consenso.
E’ trascorso un anno dall’assassinio del generale Dalla Chiesa. Doveva essere l’anno del riscatto e della giustizia per i siciliani. Tutto è accaduto in peggio, la mafia è trionfante. Pio La Torre, segretario regionale del partito comunista, era stato ucciso perché aveva imposto al governo la legge antimafia sulle indagini bancarie che avrebbero dovuto consentire di identificare i grandi capitali mafiosi e i loro artefici. Dalla Chiesa venne assassinato perché preannunciò di avere identificato le connessioni fra gli intoccabili mafiosi della finanza e della politica. E dopo di lui, in questa specie di anno santo mafioso, un crescendo.
Il giudice Ciaccio Montalto massacrato perché era sul punto di spiccare i mandati di cattura contro alcuni invulnerabili padroni di banche (banche forse nemmeno siciliane, aguzzate il talento!) nelle quali vengono riciclati i miliardi della droga. Il capitano D’Aleo trucidato insieme ai carabinieri di scorta poiché prossimo alla identificazione degli invisibili manager mafiosi che, dai loro uffici di presidenza, dirigono l’esercito insanguinato della mafia alla conquista della società. Infine il giudice istruttore Rocco Chinnici, assassinato in quel modo barbaro, coinvolgendo nella strage decine di vittime innocenti, persino bambini: una ferocia senza precedenti nella pur ferocissima storia mafiosa, poiché anche il giudice Rocco Chinnici doveva assolutamente morire, e doveva morire perché anch’egli stava per strappare il velo agli inviolabili santuari, identificare (ecco il punto) non soltanto coloro i quali eseguono gli assassinii, e coloro che ne sono i mandanti, i grandi strateghi degli affari mafiosi, ma soprattutto coloro i quali, da imperscrutabili cattedre politiche, finanziarie, forse anche governative, assicurano invulnerabilità.
Ecco: l’assassinio di Chinnici ha un significato che, per esemplare crudeltà, scavalca tutti gli altri delitti precedenti. Significa infatti: tu magistrato coraggioso e onesto, fai pure il tuo lavoro, arresta, imprigiona, condanna coloro che uccidono, avvelenano il mondo con la droga, guadagnano migliaia di miliardi e, se ne sei capace, anche coloro che li comandano, i mandanti, gli strateghi, ma non andare al di là di un passo, non cercare di capire e conoscere coloro i quali li proteggono ed assicurano loro inviolabile potenza. Non un passo di più! C’è un funerale di Stato pronto per te!
Un anno dalla morte di Dalla Chiesa, e in questo anno che doveva essere quello della grande vendetta e giustizia, persino la regia del dopo assassinio è diventata perfetta. Uno spettacolo! Prima parte della recita i funerali, tutti i padroni del feudo Sicilia schierati attorno al feretro; il povero Pertini trascinato a Palermo, sempre più vecchio, sempre più stravolto, a piangere sulla spalla di vedove e orfani; la rovente omelia del cardinale Pappalardo che invoca il rugginoso gladio di Roma in soccorso della disperata Sagunto; la folla palermitana che piange e applaude quelle misere bare con le quali uomini coraggiosi scompaiono dalla vita; capi di governo, sindaci, ministri, sottosegretari, deputati, tutti in tetro ed elegante completo scuro, la faccia pallida di emozione e paura, tre squilli di attenti, la grande ovazione di addio, il summit in questura con i ministri degli Interni e Giustizia che riconfermano fiducia, precisano che comunque sarà dura e se ne vanno, l’opinione pubblica che trattiene il respiro, pensa, disperatamente pensa: forse stavolta qualcosa accadrà! Fine parte prima.
Parte seconda. Emerge notizia, non si sa da dove, mai ufficiale e tuttavia mai smentita, che anche stavolta la vittima stava raccogliendo le ultime prove per incriminare finalmente i grandi vecchi della mafia, gli stessi che Pio la Torre voleva disarmare con la sua legge, i medesimi che Dalla Chiesa sperava di smascherare, che il capitano D’Aleo e il giudice Ciaccio Montalto erano ad un passo dal riconoscere, che Chinnici stava per catturare. In questa notizia, che pur sembra un grido di speranza della giustizia c’è una maligna ironia! Come a dire: attenti, ecco quello che succede a colui (generale, magistrato o prefetto che sia) il quale osa oltrepassare quella soglia. Il messaggio è lanciato alla perfezione, chi ha da capire capisce. Fine parte seconda!
Parte terza, il colpo di genio! Notizia per la quale sono stati identificati i nomi degli assassini, stavolta i nomi si fanno, si possono fare, tutti protagonisti della mafia vincente e perdente, personaggi già braccati per una trentina di omicidi a testa, perseguiti dalla ipotesi di una decina di ergastoli ciascuno. Uno più, uno meno! Greco, Inzerillo, Bontade, Spatola, famiglie immense di figli, fratelli, cugini, nipoti, la metà sono morti, i sopravvissuti fanno feste di cresima a New York, alla gente queste storie piacciono, i grandi rotocalchi fanno servizi speciali. E perché, anche quelli di Dallas non sono canaglie, e tuttavia venti milioni di telespettatori non li guardano a bocca aperta?
Intanto passano settimane e mesi, c’è la crisi della lira, le ferie selvagge, il nuovo campionato di calcio, Zico, Luvanor, Platini, il ragioniere Cova fa impazzire di orgoglio razziale gli italiani, il vecchio Mennea li rende quasi contemporaneamente infelici, cominciano le grandi battaglie sindacali d’autunno dove ogni povero cristo, l’avvocato Agnelli e il manovale di Solarino, ha da difendere il suo peculio, l’estate finisce, piogge, alluvioni, si riaprono i teatri, ci sono stati altri cinquanta omicidi a Palermo, a Napoli invece settanta, Biagi, Bocca e Baget Bozzo hanno scritto altri venti articoli sulla erudita differenza fra mafia e camorra… chi era Rocco Chinnici?
Gli arabi supertestimoni e informatori dei servizi segreti si sono rivelati venditori ambulanti di tappeti e collanine, altri venti o trenta giudici coraggiosi hanno garbatamente pensato che vivere certamente è sempre meglio che fare insicuramente giustizia, oltretutto si fa più carriera, solo qualcuno disperatamente resiste nella sua coscienza di uomo. Il signor Calogero è là, con il suo malinconico e gentile sorriso: ma voi perché applaudite me? io sono solo il becchino!
SCIASCIA ALIEN
Sciascia Alien
da “I Siciliani”, maggio 1983
I siciliani più famosi degli ultimi trenta-quarant’anni sono stati il bandito Giuliano, l’onorevole Mario Scelba, il principe Tomasi di Lampedusa, il premio Nobel Quasimodo, l’arbitro Lo Bello, lo scrittore Leonardo Sciascia e Pippo Baudo. Non mettiamo nel conto Elio Vittorini e Vitaliano Brancati, i quali furono grandi ma non certo altrettanto famosi. A seconda dei punti di vista abbiamo dato molto, o molto poco, alla civiltà italiana.
Nel momento storico attuale i siciliani sono in crisi. Il bandito Giuliano è oramai soltanto un riferimento antologico della storia mafiosa, il senatore Mario Scelba (l’uomo il quale esemplificò come la democrazia si possa difendere con metodi tirannici) forse il vero fondatore del regime democristiano, affonda nelle brume della lontananza con tutti i suoi ricordi, compresa l’ultima notte di Salvatore Giuliano. Il principe Tomasi di Lampedusa viene soltanto citato per il film di Luchino Visconti e per il famoso dialogo fra il Gattopardo e il piemontese Chevalley sul mortale privilegio d’essere siciliani. Salvatore Quasimodo nessuno lo conobbe veramente mai in Sicilia, è sui libri di testo, requiescat! L’arbitro Lo Bello amministra in Parlamento il suo onorevole tramonto, non diventerà mai sottosegretario o ministro, è ingrassato, non rassomiglia più a Clark Gable, è certamente uno dei democristiani più preparati e garbati e forse per questo, un giorno o l’altro, il suo partito gli farà improvvisamente le scarpe. Sic transit.
Restano Pippo Baudo e Leonardo Sciascia, l’uno delegato ad ammansire ogni domenica pomeriggio disperazioni, malumori e ribellioni degli italiani; l’altro che continua gelidamente a spiegare la necessità di una grande rivoluzione e la contemporanea impossibilità di realizzarla.
Probabilmente non è esistito mai, almeno nella cultura, un siciliano che fosse così profondamente siciliano come Sciascia, nella antichissima saggezza, tremila anni di dolori, paure, violenze patite o inferte, solitudine, e quindi il genio che nasce appunto dalla storia e dalla solitudine, e questo genio unito alla saggezza, alla pazienza, a un costante onore della morte. E tuttavia nella cultura siciliana non esiste un siciliano capace di guardare ai fatti umani con altrettanto distacco intellettuale, con un cuore così gelido, il rifiuto definitivo delle passioni umane (che non siano avidità e potenza) quali cause degli eventi. Sciascia siciliano come nessun altro, e tuttavia completamente diverso da ogni altro siciliano. Alien Sciascia.
Dieci pensieri, dieci riflessioni per capire chi è veramente, e perché, questo alien Sciascia.
1) In compagnia dei morti: Sciascia è il più grande scrittore italiano, certamente l’unico a livello europeo. Una ideale graduatoria dei grandi narratori italiani potrebbe essere la seguente: Verga, Pirandello, Manzoni, Sciascia, Moravia, Tomasi di Lampedusa, Italo Svevo, Brancati, Vittorini, Marotta. Certo una graduatoria siffatta può essere infinitamente discussa: mancano quasi del tutto gli autori moderni, come se la cultura del nostro tempo fosse scaduta definitivamente a livelli miserabili; e i siciliani sono davvero tanti e sicuramente troppi, come se l’ispirazione poetica, e dunque politica e sociale, da cento anni divampasse solamente al Sud. Ma in verità chi sono i narratori italiani moderni che, al di fuori della retorica politica, o della esasperazione commerciale, cioè senza l’avallo dei grandi partiti o l’amicizia dei grandi editori, ma semplicemente per privilegio del loro talento, possano essere considerati oggi, in Italia, grandi narratori? Non a caso, in quei primi dieci, fatta esclusione di Moravia e Sciascia, tutti gli altri sono morti, cioè protagonisti di una cultura che non ci appartiene più.
2) Amante di Medea: Sciascia sarebbe stato il più grande giornalista vivente poiché, come nessun altro, possiede quella che dovrebbe essere la qualità essenziale del giornalista: la capacità di sintesi. Egli osserva l’evento da ogni parte, Sciascia sempre fermo con i piccoli occhi aguzzi puntati, e l’evento che si muove, corre, torna, si capovolge, rigira, appiattisce, s’aguzza, modifica, rinsecchisce, esplode, e Sciascia sempre fermo, lo vede da ogni parte, alla fine è in condizione di descriverlo perfettamente. Essendo rimasto immobile al suo posto egli ha potuto misurarne la velocità di evoluzione e, a mano a mano che esso si spostava, osservarlo nelle sue diverse esposizioni, e quindi perfettamente conoscerlo a differenza di coloro che, per passione o umano interesse, viaggiano insieme all’avvenimento o dentro l’evento stesso, e quindi conoscono soltanto e sempre un aspetto. Il loro. Laddove gli altri bruciano, Sciascia rimane gelido: né dolore, pietà, commozione possono spostare di un’unghia il suo pensiero sull’evento umano. Nell’eterna lotta fra la ragione e il sentimento egli è stato immobile sempre dalla parte della prima. La sua grandezza è anche il suo limite. Sciascia è il gelido, immobile cervello elettronico: dall’altra parte una ingannevole gozzoviglia di lacrime, sudore, sangue, Amleto, Ecuba, Otello, Giulietta, Odisseus, Karamazoff, Bovary… Un’idea bizzarra, fantastica: immaginare Sciascia amante di Medea!
3) Prolegomeni sulla mafia: Sciascia è un genio e viene definito mafiologo.
Sciascia ha scritto libri di filosofia politica che hanno anticipato di anni le tragedie della politica italiana e i melensi speaker televisivi continuano a dire: «E’ qui con noi il mafiologo Sciascia!». E Sciascia allarga la sua strana faccia da batrace in un sorriso di ironica condiscendenza. In effetti Sciascia sa tutto della mafia, ma come Kant sapeva tutto dei prolegomeni. Lui non ha fatto mai racconto della mafia, né interpretazione, ma semplicemente la filosofia della mafia. Le ha dato una patente di dignità intellettuale, ha costretto statisti, politologi, governanti a trattare di mafia come uno degli argomenti fondamentali del nostro tempo.
Sciascia, se non fosse stato, per avventura umana e scelta civile, il più spietato e lucido avversario della mafia, sarebbe stato il piú geniale dei mafiosi. La ipotetica repubblica mafiosa di domani avrebbe, in tutte le sue piazze, statue di Sciascia come la becera repubblica di oggi ostenta indegnamente quelle di Garibaldi. La vita può fare di questi giochi per i quali naturalmente non esiste la prova del contrario. Dipende dal luogo dove si nasce, dal padre che ti genera, dall’ambiente che ti alleva, dai dolori e dalle speranze che accumuli. Qualsiasi essere vivente instrada le sue capacità intellettuali nella direzione in cui il suo personale contesto lo conduce. L’uomo Cutolo, se fosse nato da una famiglia di contadini rivoluzionari del Sudamerica, sarebbe stato probabilmente Simon Bolivar. Naturalmente non è una regola assoluta. Naturalmente esiste per ogni vivente uno spazio di libertà dentro il quale l’anima può riuscire a sopraffare tutte le condizioni, gli adescamenti, le necessità dell’ambiente. Ma accade forse solo ai santi.
4) A ciascuno il suo ruolo: Sciascia è convinto che la mafia sia un sottile gioco di cervello. La condizione umana non è influente: la povertà, l’ignoranza, il dolore non entrano nel gioco. Il mafioso è tale per composizione storica di elementi: psicologia, tradizioni, contrapposizioni d’interesse. In tutti i libri di Sciascia la violenza degli uomini è mossa soltanto dal fatto di essere già all’inizio personaggi definiti. In nessuno di tali personaggi, dietro la violenza, ci sono mai la sofferenza sociale dell’uomo, il dolore dell’individuo, la sua disperazione di potere altrimenti modificare il destino, e cioè gli antichi ed immutati dolori del Sud: miseria, solitudine, ignoranza.
I personaggi entrano in scena e sono già disegnati, con tutti i loro abiti indosso, ognuno deve recitare la sua parte già scritta, senza mai spiegare il perché, essi sono il buono, il cattivo, l’uccisore, il testimone, la vittima, senza mai dare spiegazione, com’è accaduto: per quale dolore, ribellione o inganno quel tale sia nel ruolo di assassino e l’altro in quello della vittima. Può accadere che ci sia thrilling, poiché Sciascia ha anche questa geniale perfidia letteraria di utilizzare il mistero, per cui tu non capisci ancora chi sia il giusto o l’ingiusto, l’assassino o la vittima, ma al momento in cui il thrilling si risolve, tu ti rendi conto che quel giusto era giusto fin dall’inizio, e così anche l’ingiusto, l’assassino e la vittima, sei tu mediocre a non averlo capito prima.
E’ come se Sciascia entrasse nel teatro in cui si recita l’essere siciliani a spettacolo già cominciato e volesse interpretare i protagonisti solo per quello che dicono. Il resto, il passato, il già detto e già avvenuto non influisce. E’ ombra. L’intuizione diventa più difficile. Il gioco intellettuale più affascinante.
5) Universo senza donne: Sciascia non narra mai di grandi passioni sentimentali. Nel suo universo la donna, come costante essenziale di tutte le altre vicende umane, non esiste.
Protagonisti sono i capipopolo e gli assassini, i cardinali, i ruffiani, i colonnelli dei carabinieri, i ministri, i confidenti di polizia, i teologi, i viceré, gli accattoni: la donna mai!
In quello che probabilmente resta il suo libro esemplare, per perfezione narrativa e nitidezza di significati morali, “Il giorno della civetta”, unico personaggio femminile presente in tutto l’arco del racconto è la vedova Nicolosi, che praticamente costituisce il perno dialettico dell’intera vicenda: il marito è stato assassinato per un delitto di mafia, e tuttavia qualcuno vuole dimostrare com’egli sia stato semplicemente trucidato da un misterioso amante della donna. C’è, per un attimo, un presentimento da tragedia greca. Ma appena la vedova Nicolosi fa un passo avanti (che diamine, l’uomo che hanno ucciso era il suo uomo, tutto dovrebbe gridare vendetta, violenza, passione in lei) Sciascia la ricaccia subito gelidamente indietro. E’ gelido anche nel descriverla, quasi con l’involontaria ironia di un verbale di carabinieri: «Era bellina la vedova; castana di capelli e nerissimi gli occhi, il volto delicato e sereno ma nelle labbra il vagare di un sorriso malizioso. Non era timida. Parlava un dialetto comprensibile. Qualche volta riusciva a trovare la parola italiana, o con una frase in dialetto spiegava il termine dialettale!».
Tutta la storia d’amore di questa donna, giovane, bella, alla quale hanno letteralmente strappato il marito per farne pupo da zucchero (un dolce tipico siciliano che si regala ai bambini nel giorno dei Morti), tutta la passione, i fremiti, il desiderio tradito, il dolore, la violenza sensuale, i sogni spezzati, l’essere donna di questa vedova, tutto il suo grido di femminilità violentata, si racchiude in questo placido periodo, allorché ella racconta il suo rapporto con l’ucciso:
«Egli ha conosciuto me ad un matrimonio: un mio parente sposava una del suo paese, io sono andata al matrimonio con mio fratello. Lui mi ha vista e quando quel mio parente è tornato dal viaggio di nozze, lui gli ha dato incarico di venire da mio padre per chiedermi in moglie. Dice “è un buon giovane, ha un mestiere d’oro”, e io dico che non so che faccia ha, che prima voglio conoscerlo. E’ venuto una domenica, ha parlato poco, per tutto il tempo mi ha guardata come fosse in incantamento. Come gli avessi fatto una fattura, diceva quel mio parente. Per scherzare, si capisce. Cosi mi sono persuasa a sposarlo!». Nelle donne di Sciascia non ci sono proiezioni d’ombre e trasalimenti di Ecuba, Fedra, Medea, nessuna femminilità tragica e furente, nessuna donna come madre della vita. Il rapporto sentimentale fra uomo e donna è sempre grigio, usuale, senza misteri. Sciascia probabilmente non ritiene la donna pari all’uomo, né come individuo, né dentro la storia. Una aggregazione, una appendice, un elemento di spettacolo. Le donne: mogli, amanti, duchesse e puttane, vengono sulla scena a recitare la loro parte e basta. Sono ininfluenti, emettono suoni, non comunicano sentimenti. Comparse che servono semmai alla battuta del maschio, alla sua riflessione; al più sono comprimarie utili al dialogo, in cui tuttavia gli uomini protagonisti formulano infine il pensiero essenziale, l’unico degno di rispetto.
6) Individui nella storia: Sciascia non ha un’idea politica precisa. Quasi certamente è convinto che la politica sia un mezzo che la società offre all’uomo per realizzarsi come individuo, non certo uno strumento della società per risolvere i suoi problemi. A giudicare dai pensieri e dagli atteggiamenti dei suoi personaggi (quasi sempre i pensieri dei personaggi coincidono inconsciamente con quelli dell’autore) Sciascia è una specie di liberale di sinistra, politicamente fermo alla Sicilia del dopo Crispi, nella quale i grandi problemi della società potevano essere risolti dal superiore talento di alcuni uomini, mai dalla trascinante violenza o dalla ribellione e disperazione delle masse. Queste grandi forze possono essere utilizzate storicamente da alcuni individui, mai essere protagoniste. Anche la politica dunque non è uno scontro dei bisogni popolari dell’umanità, che non ha perciò cicli politici in evoluzione, l’uno diverso dall’altro e determinati da nuove, profonde necessità storiche, da un eterno gioco di poche intelligenze opposte che, di volta in volta, interpretano situazioni storiche e se ne avvalgono. Sciascia scruta continuamente nel passato, libri, leggende, vicende umane, nella certezza di trovare un’ineluttabile identificazione tra passato e presente, e così dimostrare come quello che accadde un tempo, continui ad accadere anche oggi e che i pugnalatori di Palermo furono come i brigatisti di oggi e viceversa. Una somiglianza siffatta non può certo essere rinvenuta nella comparazione dei grandi eventi collettivi, ma nel raffronto fra storie di individui. Il gioco è più sottile, esige un’infinita pazienza poiché sono personaggi minimi dai quali si vogliono trarre grandi verità, bisogna riconoscerli, provocarli, ascoltarli, interrogarli infinite volte. C’è un motivo di ambiguità e di fascino in tutto questo. Chi cerca nella storia interpreta e racconta fatti e personaggi che gli altri conoscono già e di cui si cerca semmai soltanto di offrire una diversa valutazione. Sciascia cerca esseri e vicende che solo lui sa e conosce. Non può essere smentito. Ecco perché Sciascia appare grande, poiché è quasi sempre incontrovertibile.
7) Pirandello mente: Sciascia non conosce quasi mai i fatti, le cose, gli uomini, direttamente, ma li apprende per infinite vie, magari semplicemente attraverso la lettura dei giornali e l’ascolto della televisione. Tuttavia ha una miracolosa facoltà, una specie di magico ordine mentale, per cui egli allinea fatti, cose, eventi, battute, personaggi sul suo tavolo e comincia con infinita pazienza a identificarli e collegarli. Senza mai avere visto alcuno, o parlato con chicchessia, né chiesto opinioni, ricostruisce la sua verità. E alla fine la ritiene l’unica possibile. Anche gli altri alla fine se ne convincono. Tutto questo è molto singolare. E’ come se egli osservasse gli esseri umani in vitro, anni dopo anni, con l’occhio incollato a un suo microscopio, valutandone voci, gesti, sembianze, saggezza, follia. Alla fine li mette in bell’ordine sulla pagina del libro ed essi – microbi o batteri umani – si muovono, parlano, fanno, uccidono e muoiono esattamente come l’autore Sciascia ha capito o deciso che essi debbano.
Di tutti gli scrittori moderni Sciascia è il più antipirandelliano poiché sottrae ai personaggi qualsiasi indipendenza. Non è che Pirandello li lasciasse in totale libertà: li teneva sempre per sottilissimi, invisibili fili in modo che non andassero mai oltre la scena; usava almeno questo sublime, pietoso inganno di concedere ai suoi personaggi statuto di libertà, come un monarca illuminato, tuttavia conducendoli amabilmente a fare solo quello che il monarca voleva. In sostanza gli concedeva soltanto la possibilità di essere (dentro) diversi da quello che (fuori) apparivano o erano costretti ad apparire. Un grande gioco crudele e ridente.
Sciascia invece è tiranno, non concede ai suoi personaggi alcuna facoltà. Essi non sono mai alla ricerca di autore, né mai sono diversi da come appaiono, nemmeno diversi da come vorrebbero essere. Semplicemente sono come Sciascia ha deciso che siano. C’è tutto Sciascia in questo: egli riconosce la libertà soltanto al potere, e riconosce potere soltanto al talento. Soprattutto al suo talento. Per anni Sciascia studiò il grande mistero umano e politico dello scienziato catanese Majorana, improvvisamente scomparso dalla vita mentre viaggiava per nave da Napoli a Palermo. Nessuno, nemmeno i fratelli o gli amici più intimi, riuscirono mai veramente a capire cosa fosse veramente accaduto. Sciascia infine ritenne di sì. Con un piccolo libro cancellò di colpo quarant’anni di misteri, dubbi, angosce, ipotesi d’amore e dolore, paura e vendetta. Probabilmente, anzi certamente, non è vero che Majorana perì come Sciascia ha detto ch’egli perì. Però, quando la gente pensa o parla di Majorana, crede che sia scomparso dalla vita come Sciascia ha spiegato ch’egli scomparve.
8) Il fascino crudele della ragione: Sciascia non è simpatico. Talvolta è affascinante, ma chiunque lo sente diverso, in una sua astrazione intellettuale, dove gli altri uomini non possono penetrare, ma restare in attesa di capire. Sciascia non è mai d’accordo con alcuno. E’ vero, cita verità enunciate da altri, battute, frasi, ma costoro sono morti. Uno dei tratti ammirabili di Sciascia è infatti la straordinaria forza mentale, l’infallibile rigore logico, con il quale anzitutto egli riesce sempre, quasi sempre, a dominare se stesso, riconducendo ogni atto, parola, pensiero, soluzione a quel perfetto personaggio morale che egli ha studiato e costruito di se stesso. Senza mai, quasi mai, una fragilità, un cedimento, per quelle forze antiche e misteriose della sua natura siciliana, per quelle violenze viste, pagate e fatalmente adottate negli anni dell’infanzia e adolescenza. La ragione, cioè la forza mentale di Sciascia è tale, ed anche tale la sua sicurezza nella sua stessa intelligenza, che egli conduce il gioco fino al limite intellettuale, basta una incrinatura e la ragione diventa delirio. Questo è genio. Talvolta (ma è un lampo, per un attimo, davvero appena un lampo) la ragione chiude gli occhi sfinita, e vien fuori don Mariano Arena de “Il giorno della civetta”, abietto persecutore della povera gente e mandante di dieci assassinii, il quale spiega all’ebete capitano Bellodi la classificazione degli esseri viventi: uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianculo e quacquaracquà. E il capitano Bellodi pensa: don Mariano Arena è un uomo!
Oppure Sciascia spiega per quale patetica vanità umana il generale Dalla Chiesa andò a morire, conducendo alla morte anche la ragazza che aveva sposato, e il discorso, senza una sola sbavatura intellettuale, ha una infallibile coerenza da teorema: ma il giovane figlio del generale Dalla Chiesa insorge, si ribella, grida, che la ragione di Sciascia è una logica da mafioso; Dalla Chiesa junior è un giovane, confuso e straziato, il quale sa di certo che il padre andò ingenuamente a cercarsela la morte, ma sa anche che qualcuno dall’imperscrutabile vertice politico lo mandò a morire in Sicilia, e non sa chi, non ha prove, non ne avrà mai. E’ un giovane uomo infelice e furente al quale bisognerebbe soltanto poggiare una mano ferma sulla spalla per dirgli: ragiona con me ragazzo! Invece Sciascia (ecco quel lampo antico, quell’attimo) gli grida semplicemente che è un infame imbecille. Lo cancella, cancella tutto di lui: la sua piccola ragione, il suo dolore di figlio, la ribellione, la disperazione per una giustizia che nessuno gli renderà mai! Sciascia non ammette mai di avere torto. E al servizio di questo principio inalterabile pone la sua geniale matematica intellettuale. Per questo, non fosse stato il più implacabile nemico della mafia, sarebbe stato forse la più perfetta mente mafiosa del secolo.
9) Gli antichi parenti: Sciascia, pur così schivo, timido, delicato, amabile, ama la popolarità. I suoi amici sono sempre di grande censo. Quasi certamente ama molto anche il denaro, scrive su tutto e di tutto, si fa giustamente pagare in proporzione al suo eccezionale merito, e secondo la legge della domanda e dell’offerta.
Sciascia ha questo straordinario ingegno, assolutamente raro e in Italia quasi unico, di cogliere immediatamente il senso storico di un personaggio e contemporaneamente la sua importanza consumistica e di sapere subito nobilitarlo trovando un riferimento illustre nel passato, un altro evento, o fatto, personaggio, idea, pagina scritta, da cui trarre motivo per interpretare il presente. Sciascia cerca parentele antiche ovunque sia possibile trovare una affinità sentimentale, da Voltaire del Candido a Rizzotto de “I mafiosi della Vicaria”. Disprezza il presente troppo rapido, superficiale, feroce, aggressivo, continuamente scontento, troppo vorace di novità, continuamente volto al futuro, senza attenzione per le cose che ancora stiamo vivendo, e già agognando e lottando per le cose improbabili che dovremo vivere domani; il presente torvo, incerto, maligno, avvelenato, stupido, rozzo, computerizzato in cui lo spazio per l’intelligenza umana diventa sempre più ristretto. Sciascia probabilmente odia anche i protagonisti del tempo presente: ruvidi, incolti, violenti, presupponenti, avidi, incapaci di una vera riflessione: presenti che nuotano sempre nella cronaca e non hanno un attimo per capire in quale punto sono del fiume. Sciascia preferisce gli antichi, li sente consanguinei, simili, gli antichi che stavano dentro immense stanze oscure, dietro tavoli ingombri di carte, in mezzo a migliaia di libri di ogni epoca, e con tutto il tempo per meditare sulle cose degli uomini. Così, istintivamente, dovendo parlare del nostro tempo, egli va a cercare gli antichi parenti: la sua conclusione, certamente sbagliata, e tuttavia profondamente siciliana, è che in realtà non accade mai veramente niente di nuovo, ma ogni cosa continua ad accadere come cento o cinquecento anni fa. Nel Sud naturalmente. Tutto accade affinché misteriosamente ogni cosa continui a restare la medesima. Il siciliano Sciascia, che è l’opposto o addirittura la negazione filosofica del siciliano Pirandello, è l’identico del siciliano Tomasi di Lampedusa: la storia del Sud sempre uguale, passione, odio, amore, ambizione, tradimento, infinitamente si ripete. L’unica ipotesi di modificazione è un grande lampo atomico finale, dopo il quale finalmente tutto sarà diverso. O non sarà più!
10) I primi dieci viventi: Sciascia cos’è per gli europei, per gli italiani, per i siciliani? Immaginiamo di compilare una graduatoria degli scrittori italiani viventi, del nostro tempo, basandoci su tre elementi di valutazione precisi: anzitutto il reale talento, cioè l’autentica originalità e profondità di pensiero; poi l’importanza culturale, cioè la valutazione espressa dalla critica ufficiale e quindi la influenza sulla cultura contemporanea; infine la capacità di vendita sul mercato italiano e internazionale. Facciamo conto, sulla base di questi tre elementi, di assegnare ad ognuno dei personaggi in classifica, un punteggio fino a cento, in maniera da stabilire non solo la graduatoria, ma anche il reale distacco fra l’uno e l’altro. Ebbene avremo una classifica bizzarra, discutibile certo, ma che in definitiva rispecchia quelli che sono i valori reali.
Cominciamo dal basso: a quota venti (che essendo la più depressa è naturalmente la più gremita) troviamo quattro scrittori, Carlo Cassola, Carlo Sgorlon, Giovanni Arpino e Vincenzo Consolo, i quali sia pure per motivi ed ispirazioni diversi, esprimono un certo livello medio della narrativa italiana, quella che ronza di continuo attorno ai premi letterari tradizionali. Non ci sono lampi. Mai un tentativo di digressione in altri campi letterari più sofisticati come la saggistica, la filosofia, il teatro.
A quota trenta troviamo Piero Chiara ed Elsa Morante, anche loro profondamente dissimili, e che certo non possono vantare maggiore qualificazione culturale di quei quattro menzionati ma che sicuramente meritano una valutazione più ampia, l’uno per la incredibile fertilità (bisogna pur tenerne conto) e l’altra per il coraggio culturale, diciamo anche una certa impudenza, a passare oltre i confini della pura narrativa.
A quota quaranta, solitario, Gesualdo Bufalino che invece ha scritto un libro solo, però una specie di bagliore, una folgorazione. Bisogna ancora cercare di capire quanto sia capace di scriverne un altro di eguale valore, oppure se tutta la sua ispirazione umana si sia bruciata in quella diceria covata, maturata, putrefatta, purificata per quarant’anni dentro.
A quota cinquanta, anch’egli solitario, senza dubbio Enzo Biagi, che è romanziere assolutamente mediocre, incapace di far nascere e vivere storie autonome dentro di sé, e tuttavia ha questa prodigiosa capacità di interpretare il presente, con tutte le infinite astuzie del mestiere. La sua capacità di vendere e contemporaneamente emozionare, e quindi essere anche divo, gli consente di occupare certamente un posto di graduatoria più alto dei suoi reali meriti culturali.
A quota sessanta, ed anche egli naturalmente solitario, poiché nel contesto della letteratura italiana senza eguali, Alberto Moravia, settant’anni, tutta la vita spesa a raccontare se stesso, la sua infinita noia, il suo costante disprezzo per gli altri, il suo eros, i suoi incubi. Senza dubbio un maestro, forse ormai spento, e forse invece, proprio in questo ultimo tempo della sua vita, nelle condizioni di dolore e serenità per quel capolavoro che non è riuscito mai veramente a scrivere.
Infine a quota cento, unico, lontano da tutti gli altri, perché il più geniale, il più riverito, il più venduto, solitario e irraggiungibile, con quell’enigmatico sorriso da Giocondo, forse mistificatore, forse profeta, Leonardo Sciascia, il quale da solo rappresenta in Europa la letteratura siciliana e italiana nella narrativa, nella saggistica, nella filosofia della letteratura. Forse il più siciliano di tutti i grandi narratori di tutti i tempi, e tuttavia diverso da qualsiasi altro siciliano. ALIEN!
E questo va detto da un siciliano che non ama Sciascia, che si ritiene identico a tutti gli altri siciliani del suo tempo, e in questo trova la bellezza della sua vita.
I CENTO PADRONI DI PALERMO
I cento padroni di Palermo
da “I Siciliani”, giugno 1983
Camminare a Palermo. Il viale bianco di sole. Le grandi nuvole che arrivano da Punta Raisi, la loro ombra corre sul viale più veloce delle auto. Il cielo sul mare è abbagliante, il cielo sulle montagne a sud, è nero di tempesta. Il gelato da Roney. Tre signore di mezza età stanno sulle poltroncine verdi, con le sopracciglia alte e le boccucce delle signore di Tolouse Lautrec, sedute al divano rosso. Fumano con boccate avide, l’una racconta e continuamente ride, scuote la cenere in aria, l’altra sorride melliflua, la terza annuisce. Sorbiscono granita di mandorla. Tre boccucce eguali come fossero state dipinte dalla stessa mano. Camminare a Palermo. Il cuore del vecchio mercato a mezzogiorno. Almeno cinquemila persone in un groviglio di vicoli che affondano tutti verso la piazzetta. Cento bancarelle sormontate dai giganteschi ombrelloni rossi, pesce, verdura, carne, mele, noci, aragoste, i quarti insanguinati di vitello, i capretti sventrati che pendono dagli uncini, i banditori urlano tutti insieme, lottano così l’uno contro l’altro, in mezzo alla folla.
Camminare a Palermo. Il circolo della stampa, con i soffitti bassi, il sentore e l’odore della catacomba, il buio, la luce verde del bigliardo senza giocatori, tre bizzarri individui che ti vengono incontro da tre direzioni diverse, si rassomigliano incredibilmente tutti e tre, saluti gentilmente e nello stesso momento tutti e tre ti salutano con l’identico sorriso, sono gli specchi che dagli angoli bui riflettono la tua immagine. Silenzio. Un aroma di caffè, un cameriere vecchissimo, allampanato che appare vacillando, da un angolo d’ombra all’altro, e scompare. Su un divano tre vecchi signori impassibili dinnanzi a un televisore in bianconero che pispiglia qualcosa. Uno dei signori ha il bastone col manico d’argento, le ghette, il panama bianco. Si alza levando dolcemente il bastone a mo’ di saluto: “Ho fatto tardi!”. Se ne va adagio, si volge solo un attimo con un mormorio. Non si capisce se abbia detto: “Debbo morire!”.
Camminare a Palermo? Gli osceni edifici a dodici, quindici piani, che si affollano l’uno sull’altro, lungo la riva del canalone che scende dalla collina al mare, con un rivolo d’acqua putrida al centro, e giù in basso i tuguri dove si ammassano venti persone, a due metri da quel rigagnolo giallo. I bambini che giocano da una riva all’altra. Bambini così, anche cani così che corrono in mezzo ai bambini, li ho visti solo a Palma di Montechiaro. Anche il colore, anche il fetore di quel rigagnolo è lo stesso di quel liquame che scorre orribilmente fra le rupi di Palma. Tutto questo è retorica, lo so. A Palma di Montechiaro però tre bambini su dieci muoiono prima di arrivare all’età scolare. E da qualche parte, in questa immensa città, c’è qualcuno che sta discutendo quale sarà il destino di questi bambini di Palermo per i prossimi venti o trent’anni. E quale sarà il suo guadagno.
Palermo è una delle città più belle d’Europa e certamente una delle più infelici. Forse più della stessa Napoli. Palermo è sontuosa e oscena. Palermo è come Nuova Delhi, con le reggie favolose dei maharajà e i corpi agonizzanti dei paria ai margini dei viali. Palermo è come Il Cairo, con la selva dei grattacieli e giardini in mezzo ai quali si insinuano putridi geroglifici di baracche. Palermo è come tutte le capitali di quei popoli che non riuscirono mai ad essere nazioni. A Palermo la corruzione è fisica, tangibile ed estetica: una bellissima donna, sfatta, gonfia di umori guasti, le unghie nere, e però egualmente, arcanamente bella. Palermo è la storia della Sicilia, tutte le viltà e tutti gli eroismi, le disperazioni, i furori, le sconfitte, le ribellioni. Palermo è la Spagna, i Mori, gli Svevi, gli Arabi, i Normanni, gli Angioini, non c’è altro luogo che sia Sicilia come Palermo, eppure Palermo non è amata dai siciliani. Gli occidentali dell’isola si assoggettano perché non possono altrimenti, si riconoscono sudditi ma non vorrebbero mai esserne cittadini. Gli orientali invece dicono addirittura di essere di un’altra razza: quelli sicani e noi invece siculi, quelli cartaginesi, saraceni, andalusi, napoletani; noi greci, romani, svevi, milanesi. I catanesi hanno proposto due capitali dell’isola per due popoli diversi, si tratta di uno sberleffo, ma nella realtà in cosa potranno mai essere rassomigliati (concetto dell’uomo o pensiero sulla vita) Verga e Tomasi di Lampedusa, oppure Vitaliano Brancati e Leonardo Sciascia? Pirandello, che stava in contemplazione a metà strada fra questi due concetti dell’essere, probabilmente dovette pensare quanto l’essere siciliano in definitiva fosse fantastico e improbabile.
I siciliani non amano Palermo e Palermo lo sa perfettamente ma non se ne cura. I siciliani non amano Palermo poiché essa è la capitale che esige soltanto tributi e obbedienza, e in verità Palermo vuole questo soprattutto, come è giusto che sia il rapporto fra sudditi e sovrano. Il catanese, il siracusano, il messinese, il ragusano, si azzannano a vicenda, ma se qualcuno forestiero gli chiede la provenienza, dicono: Siciliano! E basta. Il palermitano dice: palermitano, che a parer suo è cosa inimitabile e sovrana.
I Siciliani non amano Palermo. C’è qualcosa che impaurisce e respinge. Io ho visto per le strade di Catania auto sbucare di colpo, e uomini balzare fuori con le armi in pugno e cominciare a sparare addosso ad altri uomini, e chinarsi urlando a sparare il colpo di grazia alla nuca. Ho visto corpi insanguinati di ragazzi uccisi, giacere in mezzo alla strada e la gente che continuava ad andare, le auto a correre. Ho visto cortili fracassati dalle raffiche di mitra e dalle schegge delle bombe a mano, e colava dai muri e le polpette ancora fumanti sulla mensa. Ho visto madri avanzare piangendo verso i corpi degli uccisi, sostenute pietosamente da parenti che però avevano la sigaretta fumante in bocca. La morte a Palermo è diversa, la morte violenta. Più profonda, più arcana e fatale. Esige contemplazione: una fila di sedie tutt’intorno al corpo insanguinato, in mezzo alla strada, e ai parenti seduti immobili, in silenzio, a guardare. I ragazzini immobili e attenti. La morte è spettacolo da non perdere. La morte ha sempre una ragione d’essere. A Palermo essa va meditata e capita. Chi sono i padroni di Palermo? Coloro che hanno nel pugno il destino di questa grande, splendida e infelice capitale del Sud?
E’ una domanda essenziale poiché essere padroni di Palermo non significa soltanto governare taluni giganteschi affari per migliaia di miliardi, ma per infinite, invisibili vie governare anche lo sviluppo politico dell’isola e quindi del Meridione: per esempio stabilire in quali banche debba essere depositato il pubblico denaro, e chi debba dirigere queste banche; per esempio indicare quali funzionari meritino carriera per propiziare e garantire giganteschi affari di vertice; e via via, sempre per esempio, spirali sempre più difficili e più alte e segrete, designare coloro i quali dovranno essere deputati, assessori, sottosegretari, ministri. Bisogna stare attenti. In Sicilia, e quindi naturalmente a Palermo, si verifica un fenomeno straordinario: e cioè che in Italia tutto quello che accade, nel bene e nel male, dipende dai partiti oramai despoti della vita nazionale, ma questo potere nel Sud si sgretola, degrada, corrompe, privatizza. Un uomo politico può diventare presidente o ministro, e la gente pensa che sia domineddio, ma nella realtà egli è diventato ministro o presidente per amministrare una situazione, una proposta, un compromesso che altri hanno discusso e deciso prima di lui e gli hanno semplicemente affidato. Altrove, a Torino, Milano, Bologna, persino a Napoli, un ministro può essere il padrone. Qui, non essere nessuno.
Chi sono dunque i padroni di Palermo? Badate bene: i padroni, non il padrone, poiché a Palermo accade anche questo fenomeno straordinario, e cioè che non è ammesso il tiranno, il condottiero, colui il quale per carisma, per virtù propria di talento o violenza, possa emergere su tutti gli altri ed al quale tutti gli altri debbano rispetto e obbedienza. Se spunta un Cesare ci sono subito le Idi di marzo. Palermo rassomiglia alla Roma del basso impero con le congiure, i pretoriani, i Caligola che fanno senatori i loro cavalli, le clientele che fluttuano dall’uno all’altro vincente. Ma più ancora Palermo rassomiglia all’Atene della decadenza, con gli oligarchi, oratori, guerrieri, reggitori che in mezzo a loro non permisero mai venisse fuori un capo. Le virtù che contano a Palermo non sono quelle di un Pericle, ma piuttosto di un cardinale Mazzarino, di chi sappia intrigare, unire, collegare, non conoscere mai la vera identità dell’assassino e tuttavia da quell’assassinio trarre sicuro vantaggio, né mai essere in prima persona nell’affare da cento o mille miliardi, ma amabilmente avere la certezza di un dieci per cento, metà del quale da distribuire ad amici, confidenti, alleati e delicatamente anche a taluni avversari. Né Pericle, né Alcibiade.
La storia moderna di Palermo, che è anche la storia politica del Sud e in gran parte anche della violenza che ciclicamente scuote la nazione, si potrebbe raccontare attraverso storie esemplari di alcuni uomini. Ecco: qui diventa perfetta la storia di Piersanti Mattarella, da raccontare tuttavia con umana sincerità affinché ognuno possa capire le cose come veramente accaddero e quindi trarre una ragione, un cifrario per le cose che continuano ad accadere.
Piersanti Mattarella, il cui personaggio oramai è entrato nella leggenda politica siciliana dell’ultimo decennio, era figlio di Bernardo Mattarella, padrone della Sicilia occidentale, quando Palermo ancora ammetteva un solo padrone. Saggio e collerico, amabile e violento, culturalmente modesto, ma irruento parlatore, Mattarella non disdegnava alcuna alleanza potesse servire al potere del suo partito ed a quello suo personale. Non aveva scrupoli. Se parte dei suoi voti provenivano dai ras delle province mafiose, che ben venissero, erano egualmente voti di cittadini italiani. E se quei grandi elettori chiedevano un favore in cambio, Bernardo Mattarella (come si suole dire) non si faceva negare. Contro di lui dissero e scrissero cose terribili, ma in realtà non riuscirono a provare praticamente niente, se non che la sua potenza, appunto per questa assenza di testimoni contrari, era perfetta.
Il vecchio Mattarella aveva eletto il figlio Piersanti, suo delfino ed erede, lo avvezzò al potere con la stessa puntigliosa prudenza, la medesima pignoleria, che la regina madre usa di solito per il principino di Windsor: prima buon studente, poi eccellente cavallerizzo, ufficiale della marina imperiale, un matrimonio di classe regale, un viaggio per tutto il Commonwealth ad affascinare sudditi. Al momento opportuno il trono. Piersanti era alto, bello, intelligente, amabile parlatore, ottimo laureato, viveva a Roma, parlava con buona dizione. Era anche un uomo molto gentile ed infine aveva una dote che poteva essere un difetto: era candido. O forse fingeva di esserlo.
Quando il padre ritenne il momento opportuno, lo fece venire a Palermo perché fosse candidato al consiglio comunale. Il Comune di Palermo è una palestra politica senza eguali, nella quale si apprendono tutte le arti della trattativa per cui l’affare politico è sempre diverso da quello che viene ufficialmente discusso, e si affinano le arti della eloquenza per cui si dice esattamente il contrario di quello che è, anche gli avversari lo sanno e però fanno finta di non saperlo, e quindi l’oratore riesce a farsi perfettamente capire senza destare lo scandalo dei testimoni. Piersanti imparò, quanto meno, a capire quello che gli altri dicevano. Poi venne eletto dall’assemblea regionale siciliana, dove in verità – provenendo i deputati da tutte e nove le province dell’isola – le arti sono più grossolane, ci sono anche la cocciutaggine dei nisseni, la imprevedibile fantasia dei catanesi, la finta bonomia dei siracusani, tutto è più facile e difficile, e tuttavia anche qui Piersanti Mattarella fu diligente e attento. Valutava, ascoltava, sorrideva, imparava, giudicava. Venne eletto assessore alle finanze. Fu in quel periodo che vennero confermati gli appalti delle esattorie alla famiglia Salvo.
Esigere le tasse può sembrare odioso, e tuttavia è necessario, consentito, anzi preteso dalla legge. L’esattore deve essere avido, preciso e implacabile. I Salvo erano perfetti. Il loro impero esattoriale si estendeva da Palermo a Catania, un giro di centinaia di miliardi, forse migliaia. C’era una bizzarra clausola nell’accordo stipulato fra gli esattori Salvo e l’assessore regionale: cioè gli esattori avevano facoltà di scaglionare nel tempo i versamenti. Premesso che la Giustizia impiega magari due anni per riconoscere un’indennità di liquidazione a un povero lavoratore, ma ha una capacità fulminea di intervento contro lo stesso poveraccio che non paga le tasse, gli esattori Salvo avevano il diritto di esigere subito le somme dovute dai contribuenti, epperò la facoltà (detratte le percentuali proprie) di versare a scaglioni le somme dovute alla Regione. Praticamente per qualche tempo avevano la possibilità di tenere in banca, per proprio interesse, somme gigantesche. Non c’era una sola grinza giuridica. Avevano fatto una proposta e la Regione aveva accettato.
Infine Piersanti Mattarella venne eletto presidente della Regione. E improvvisamente l’uomo cambiò di colpo. Aveva studiato tutte le arti per diventare Mazzarino e improvvisamente divenne Pericle. Indossò tutta la dignità che dovrebbe avere sempre un uomo; dignità significa intransigenza morale, nitidezza nel governo, onestà nella pubblica amministrazione. Piersanti Mattarella fu capace di pensare in grande e pensare. in proprio. Figurarsi la società palermitana degli oligarchi, i cento padroni di Palermo. Come poteva vivere un uomo così, e per giunta vivere da presidente? Nessuno capirà mai se Mattarella venne ucciso perché aveva fermato una cosa che stava accadendo, oppure perché avrebbe potuto fermare cose che invece ancora dovevano accadere.
La storia di Mattarella è davvero una storia esemplare all’interno del racconto sul potere a Palermo. Palermo non può avere un solo padrone, nemmeno un primus inter pares : se qualcuno tenta di esserlo viene distrutto in qualche modo, oppure più semplicemente ucciso. Naturalmente non accade mai che la decisione dell’assassinio sia presa dalla piccola società degli oligarchi, questo appartiene alla fantascienza mafiosa, tutti hanno il medesimo interesse ma in definitiva sono soltanto due o tre di loro, i più offesi o spietati, che prendono la decisione. Individuarli non è possibile mai: bisognerebbe prima identificare e catturare gli esecutori dell’assassinio; che costoro confessassero da chi hanno avuto mandato di uccidere, e questi mandanti a loro volta indicassero l’anonimo barone che ha commissionato il delitto. Una serie di ipotesi assolutamente impossibile che, tutte insieme, configurano appunto il perfetto delitto di mafia.
Chi sono dunque i padroni di Palermo? I metodi di identificazione sono due: l’uno politico, l’altro finanziario, cioè anzitutto l’identificazione dei politici che attraverso leggi e azioni di governo determinano i grandi affari pubblici, compresi i sistemi di affidamento; e quindi la identificazione degli operatori che si aggiudicano tali grandi affari e ne diventano perciò i protagonisti.
Attualmente, nella città di Palermo ci sono una ventina di grandi affari pubblici. Messi insieme formano un pacchetto di duemila-tremila miliardi. Scegliamone quattro, i più semplici da capire: il porto scogliera, l’appalto per la pubblica illuminazione, il risanamento del centro storico, l’appalto per la manutenzione stradale.
Il porto-scogliera dovrebbe sorgere lungo quel tratto di litoranea fra la nazionale per Messina e il Foro Italico, cioè in quel tratto di spiaggia dove si scaricano le immondizie di mezza città e le acque luride delle fiumare, un tratto di mare che è divenuto una sola immensa fogna, oramai perduto per qualsiasi utilizzazione commerciale e turistica. Il problema è quello di bonificare la zona, evitando che essa diventi una sempre più micidiale concentrazione di immondizie putrefatte, di topi, mosche, cani randagi, zanzare, miasmi, epidemie. Il progetto è semplice: costruire in mare a qualche centinaio di metri dalla riva una scogliera artificiale, una specie di immensa barriera frangiflutti, in modo da creare all’interno, fra tale scogliera e la spiaggia, una specie di mare morto nel quale andranno a scaricarsi quotidianamente tutti i materiali da riporto dell’intera città, pietre, rottami, rifiuti, calcinacci. Nel giro di pochi anni il mare, o meglio quel putrido stagno, scomparirà per sempre e diventerà un immenso pianoro di terraferma. La proposta è che la ditta appaltatrice dei lavori, la Sailem, esegua i lavori gratuitamente, aggiudicandosi tuttavia la proprietà delle aree di risulta, cioè di quell’immenso pianoro che si sostituirà al mare. Naturalmente tutta area fabbricabile, nel cuore di Palermo, lungo il mare, in una zona che – eliminato l’inquinamento – potrà diventare prezioso luogo di insediamenti turistici, residenziali e alberghieri. Il tratto di litoranea interessato è lungo circa due chilometri, la scogliera sarà costruita a trecento metri dalla spiaggia, un’area dunque di circa sessantamila metri quadrati. Il prezzo delle aree fabbricabili nelle zone urbanistiche di eccellenza si aggira sulle cinquecentomila lire a metro quadrato. Fate i conti.
L’appalto per la pubblica illuminazione, per centodieci miliardi. Esso non è avvenuto per pubblico concorso ma a licitazione privata. Con delibera della giunta presieduta dell’ex sindaco Martellucci, che attende solo la ratifica del consiglio comunale, è stato approvato il rinnovo dell’appalto alla ditta ICEM, di cui è grande manager l’ingegnere Parisi. La grande storia di Palermo è fatta di alcune grandi storie umane ma anche di tante piccole storie esemplari che si debbono mettere tutte insieme, l’una accanto all’altra, nel posto giusto. L’ingegnere Parisi è il presidente del Palermo calcio: pare abbia fatto egli stesso candida ammissione di non avere per il calcio alcuna passione o competenza. E tuttavia, soavemente invitato dagli ambienti politici della Dc ad assumere la gestione del Palermo calcio per ricondurlo in serie A, altrettanto soavemente egli accettò di rendere questo servizio alla città e agli uomini che la governano. Gli è costato due miliardi! Non sono stati spesi bene, ma non sono neanche molti. Il piano di risanamento del centro storico di Palermo. L’ultima preda! L’alleanza criminale fra politici e imprenditori ha infatti letteralmente divorato, sfregiato, saccheggiato oramai tutta l’immensa periferia della capitale, rovinandola per sempre. Il prezzo pagato dalla città è stato tragico. Almeno duemila assassinii: uomini giustiziati in mezzo alla strada, murati nei piloni di cemento degli stessi palazzi, gettati in mare con una pietra alle caviglie. Una pirateria di circa cinquantamila miliardi la cui spartizione ha consentito l’insorgere di almeno cinque nuovi tremendi focolai di potenza mafiosa che (per evoluzione criminale e capacità finanziaria) hanno potuto impadronirsi anche del contrabbando della droga, determinando un terrificante salto di qualità e di potenza dell’intera struttura criminale.
L’unica area urbanistica residua, nella quale sono possibili operazioni urbanistiche, appunto l’ultima preda, è il centro storico di Palermo, cioè quella che fu la splendida, orgogliosa capitale della civiltà mediterranea e nella quale arabi e normanni profusero i tesori della loro architettura. Spettacolo di miseria e grandezza. Vicoli nei quali dilaga un’umanità urlante e feroce, palazzi di straordinaria bellezza che però cadono a pezzi, tuguri nei quali si intanano migliaia di sventurate e fameliche famiglie del sottoproletariato, cattedrali, reggie, teatri di ineguagliabile maestà, spazi fatiscenti dove si accumulano le immondizie di interi quartieri, migliaia di edifici pericolanti dai quali gli esseri umani sono stati stanati a forza come bestie. Il progetto di risanamento che sta per essere ultimato, deve salvare i grandi palazzi prima che crollino, cancellare migliaia di tuguri, programmare il restauro di centinaia di edifici ora abbandonati e la costruzione di migliaia di altri nelle aree di risulta. Un progetto gigantesco. Un affare che prevede un investimento pubblico di duemila miliardi, e perlomeno quindici/ventimila miliardi di investimenti e quindi profitti privati. Facile immaginare quale drammatica lotta si sia già scatenata in quella fantastica città mafiosa, invisibile all’occhio e tuttavia perfettamente compenetrata (una città sull’altra e dentro l’altra) a Palermo. Si tratta di capire chi si presenterà a chiedere gli appalti e come essi saranno dati, con quali facoltà e vantaggi. I grandi personaggi del potere si stanno squadrando e valutando, cercando di leggersi negli occhi per capire chi sarà alleato, concorrente o nemico. I catanesi che hanno un’ironia piuttosto ruvida, quasi sempre conclusa con una grande risata direbbero: “Si stanno curando in salute!”.
I palermitani che sono più tristi e perciò anche più sottili nell’ironia, dicono: “Si stanno guardando lo scarto”, che nel terziglio è il momento in cui il giocatore solo contro gli altri due, va a riguardarsi le quattro carte di scarto che solo lui conosce, per fare la giocata decisiva. Gettare subitaneamente la scartina e brutalmente uscire di napoletana. Con ironia più esplicita, qualcuno a Palermo più semplicemente dice: “Duemila miliardi a chi sparerà per primo!”.
Infine l’appalto per la manutenzione stradale. Anche tale appalto, per un importo di centotrenta miliardi, sarà rinnovato alla ditta LESCA di cui è protagonista e manager il conte Cassina. Ecco un’altra piccola storia per raccontare la grande storia di Palermo.
Cassina è conte! I palermitani, la cui ironia spesso è così tagliente da sembrare cinismo, dicono ai catanesi: “Voi avete i cavalieri del lavoro, noi abbiamo i conti! C’è un abisso. Cassina è conte, è milanese ed è Gran Bali, per tutto il Sud, dei cavalieri del Santo Sepolcro, associazione di personaggi eccellenti i quali hanno diritto di paludarsi in cappa nera, feluca e spadino, e in tal guisa scortare il Papa nelle grandi cerimonie ufficiali. Al Gran Bali spetta il governo della loggia (si chiama così, come nella massoneria) e la designazione dei nuovi cavalieri. Della loggia di Palermo, negli ultimi anni, sono entrati a far parte questori, magistrati, professori di università, artisti, luminari della medicina e delle lettere, operatori economici, cavalieri del lavoro. Il conte Cassina li convoca, li governa e li affabula. Ecco, il conte Cassina è uno dei padroni di Palermo. E’ amabile, colto, intelligente, non ha la prepotenza mentale e la temerarietà dei cavalieri di Catania, per i quali non c’è impresa che non possa essere tentata e che non si abbia il diritto di tentare, ma la prudente saggezza di colui il quale vive in una capitale in cui c’è un limite a tutto, anche alla potenza dell’uomo. E’ un uomo che può invitare a cena ministri, prefetti, giudici e conversare affabilmente sul destino della Sicilia. Da buon milanese ha uno straordinario rispetto per il denaro e quindi è anche tenuamente avaro. Si dice che un cavaliere di Catania, invitando a cena nella sua villa prefetti e ministri, facesse galantemente trovare, sotto il tovagliolo, graziosi monili d’oro per le consorti dei convitati. Il conte Cassina si limita agli spaghetti, e per le gentili signore, una piccola orchidea. Un padrone di Palermo il quale sa perfettamente che non si deve mai essere l’unico padrone di Palermo, ma che bisogna convivere con gli altri e tutto sta semmai nel garbo con cui si è capaci di riconoscerli.
E i politici. Anche nella politica la situazione è mutata. Il tiranno non esiste più. Mattarella tentò di imporre una regola morale a tutti, pensò di avere il carisma del capo. Morì. Prima di lui aveva tentato, con altro stile e altre convinzioni, Vito Ciancimino, certo il personaggio più famoso della democrazia cristiana e quindi della politica palermitana. In effetti ci fu un momento storico in cui parve il padrone di tutto, il solo e incontrastato governatore della volontà politica nella capitale dell’isola. Non ci fu affare, né opera pubblica, né appalto, né alleanza o compromesso che non fosse sua iniziativa o non si avvalesse del suo consenso. Lo distrussero. Comandava troppo. Però sopravvisse. Vito Ciancimino non era Piersanti Mattarella, egli era tanto astuto quanto quello era candido, egli era tanto attore quanto quello condottiero. Non avendo la vocazione di Alcibiade capì per tempo quanto meglio valesse essere Mazzarino, cioè paziente, silenzioso, ironico. Fra gli uomini politici italiani, rassomiglia più di ogni altro a Giulio Andreotti (nella speranza che nessuno dei due si offenda).
Parlando di potere politico a Palermo si deve subito pensare a Vito Ciancimino, il geometra Ciancimino, come egli spavaldamente ama presentarsi; ecco, questa è un’altra piccola storia da raccontare dentro la grande storia di Palermo, e nemmeno tutta la storia dell’uomo, ma solo un minuscolo episodio del personaggio, perché si possa ancora più perfettamente capire Palermo.
Vito Ciancimino crollò nell’ultima fase delle indagini dell’antimafia. Venne accusato, lui prima assessore all’urbanistica e poi sindaco, di aver lasciato sbranare Palermo dalla mafia. La democrazia cristiana ebbe paura. Non poteva certo partecipare al linciaggio perché sarebbe stato come mettere sotto accusa tutte le operazioni di potere che il partito aveva sollecitato e giustificato, una specie di suicidio; e però non poteva nemmeno difendere l’uomo perché le accuse erano troppo gravi, c’era il rischio di essere coinvolti e travolti. La democrazia cristiana non ha lo stoicismo tra le sue regole morali. Il suo principio è il silenzio estatico, la sua forza il tempo. Il silenzio avvolge, confonde, non consente approfondimenti, dibattiti. Il tempo ammorbidisce, logora, stanca, dilapida, suscita smarrimenti, la gente muore, la gente dimentica. Col tempo e nel silenzio svanì e si perse per sempre anche il come e il perché, vita e morte del bandito Giuliano. Figuratevi!
Dinnanzi a Vito Ciancimino la Dc si tirò addosso un velo sepolcrale: lo deferì ai probiviri del partito perché stabilissero se poteva giustamente stare dentro il partito a testa alta o dovesse esser cacciato con ignominia. Tempo e silenzio. Finché vennero le elezioni politiche del 1979. Vito Ciancimino non poteva candidarsi poiché era nel limbo, ma aveva però quaranta/cinquantamila voti di preferenza sulla piazza di Palermo, un formidabile pacchetto elettorale che poteva manovrare a suo piacimento. Erano voti suoi, conquistati, allevati, guadagnati, difesi anno dopo anno, con mille amicizie, protezioni, minuscole alleanze, favori, benevolenze. Li aveva proprio nel portafogli, cosa sua, manovrando quei cinqantamila voti di preferenza, cioè spostandoli dall’un candidato all’altro, poteva determinare disfatte e trionfi. Per i leaders politici palermitani oltretutto non è importante solo essere eletti al parlamento, ma anche il numero delle preferenze, poiché queste stabiliscono gerarchie, ingigantiscono prestigio, candidano alle cariche ministeriali. Ora si racconta come nella fase pre-elettorale, il ministro Ruffini mandasse segnali di fumo al geometra Ciancimino per esprimere il suo gradimento a quei cinquantamila voti di preferenza, e come il Ciancimino stanco di essere tenuto alla gogna, facesse sapere che sì, quei cinquantamila voti sarebbero stati suoi, purché il ministro Ruffini l’avesse aiutato ad avere finalmente una sentenza assolutoria dai probiviri della Dc. E ancora si narra come il ministro Ruffini gli promettesse il suo leale appoggio in tal senso, organizzando un incontro con il segretario nazionale Piccoli a Roma: appuntamento a Roma alle sette del mattino, nella villa del segretario Piccoli.
Vito Ciancimino arrivò in tassì, con una valigetta di cuoio piena di documenti che avrebbero dovuto comprovare la sua innocenza e comunque indurre ad una benigna valutazione il segretario nazionale della Dc. Erano i tempi della grande paura e del terrorismo trionfante. Gli uomini di vertice viaggiavano in autoblindo. La villa di Flaminio Piccoli era circondata dai carabinieri con i mitra puntati: si videro venire incontro questo sconosciuto, con gli occhietti neri da siciliano, i baffetti, e quella valigetta di cuoio. Sono il geometra Ciancimino, ho un appuntamento con l’onorevole Piccoli, in questa valigia ci sono carte personali… Documenti, perquisizione, verbale dei carabinieri: alle ore sette del mattino si è presentato un tale, pretendendo di avere appuntamento con l’onorevole Piccoli, ha esibito documenti intestati al ragioniere Vito Ciancimino, di Palermo…
In quell’istante scortato da motociclisti e auto della polizia, arrivò in auto blindata il ministro Ruffini. Così narrano. Carabinieri sull’attenti. Il ministro spiegò che poteva garantire lui per il signor Ciancimino, il quale effettivamente era atteso dall’onorevole Piccoli. Agli ordini eccellenza. I carabinieri sono sempre carabinieri: misero diligentemente a verbale. Quello che si dissero nello studio di Piccoli nessuno lo sa. Il candidato Ruffini ebbe centocinquantamila voti di preferenza.
E venne il caso Sindona: lo scandalo, l’arresto di Spatola il quale era amico di Ciancimino e disse agli inquirenti d’essere andato una volta a cena con il ministro Ruffini, il quale a sua volta disse che non sapeva nemmeno chi fosse questo Spatola, glielo avevano presentato un giorno per caso, piacere, molto lieto e basta, e che comunque non conosceva quel tale Ciancimino di cui gli parlavano. Allora Ciancimino scrisse una lettera a mano, con un foglio di carta carbone sotto, per averne copia, “Caro Ruffini, leggo che dici di non conoscermi nemmeno. Sei un…!”. L’epiteto fu crasso e stentoreo. Piegò il foglio, senza nemmeno metterlo in busta e lo spedì per raccomandata espresso. Conservò nel portafogli quella copia, ogni tanto la tira fuori e la tiene appesa a due dita in faccia all’interlocutore. Ride: “Non mi conosce? C’è quel verbale dei carabinieri: alle ore sette del mattino si è presentato il ragioniere Vito Ciancimino. Il sopraggiunto ministro Ruffini, ecc., ecc… “.
Chi sono i padroni politici di Palermo? Il ministro Ruffini, l’onorevole Lima, l’ex sindaco Valenzi? Certo! Forse ancora, da qualche parte, in qualche modo con qualche pacchetto di cinquantamila voti in tasca, Vito Ciancimino. Epperò anche infiniti altri. In realtà fino a non molto tempo fa, c’erano a Palermo i grandi, inviolabili boss politici. Giovanni Gioia era Luigi XIV. Tutto passava per il loro consenso. I grandi capi esistono ancora, ma sono stati esautorati, c’è stata la rivolta dei peones, sono almeno cento: ognuno di loro restando all’ombra del capo e rispettandone ufficialmente il potere si è costruito il suo piccolo feudo di potere, secondo competenza. Tutto quello che passa per il suo feudo paga, per taluni può essere soltanto la devota riconoscenza, per altri invece un tenue dieci per cento sul totale dell’affare. Anche il suo legittimo è pulito.
Pensate a un galantuomo che deve avere un contributo o un mutuo da un miliardo: se lo fanno aspettare un anno ci rimette gli interessi bancari attivi quindi il 18%, e subisce l’impoverimento per svalutazione di un altro 14-15%. Con quella garbata tangente del dieci per cento, li ottiene subito secondo diritto. Ci guadagna!
La figura giuridica sarebbe quella della cosiddetta servitù di passaggio, oppure in taluni casi, i più sofisticati (i giuristi mi perdonino l’audacia) dell’enfiteusi che è il diritto di godere di una cosa altrui, con l’obbligo di pagare periodicamente un canone. Solo che la cosa altrui, stavolta, è la cosa pubblica. Ma è un particolare ininfluente la cosa pubblica a Palermo, è la cosa dei cento padroni che possiedono Palermo.
Palermo! Camminare per Palermo.
Camminare sfiorando gli stupendi palazzi dove un giorno vissero svevi, normanni, emiri, angioini, ed ora anche le facciate stanno cadendo a pezzi, dietro queste facciate pavimenti e soffitti sono sfondati, le scale crollate. Camminare nei vicoli di Palermo assordati dal grido di centinaia di venditori, in mezzo ad una folla che sembra vagare con il moto pazzo delle formiche su un torsolo di mela. Camminare nelle stradine fetide e senza selciato, con le bancarelle fumanti attorno alle quali si aggruma la gente povera a mangiare gli scarti bolliti dei macelli. Camminare in mezzo ai tuguri di Palermo dove si intana la gente sradicata, cacciata via dalle case antiche che stavano per crollare. Tutto questo è folclore, lo so.
Però, in questa grande capitale del Sud, migliaia di bambini vivono veramente dentro le tane come le bestie umane; e decine di migliaia di uomini vivono miserabilmente di espedienti, commerci infinitesimali, elemosine, ruberie; e centocinquanta esseri umani sono stati assassinati in un anno in mezzo alle strade, ed altri centocinquanta sono scomparsi, eliminati dalla lupara bianca. Tutto questo è retorico. Quando la verità è insultante si dice che essa è retorica, è sempre retorico tutto quello che non rientra nei limiti del possibile, trecento assassinii sono dunque retorica.
Salire la scalinata del Palazzo delle Aquile e sapere che da qualche parte, in qualche stanza, venne perpetrata la spartizione di cinquantamila miliardi per la devastazione urbanistica di Palermo, e alcuni di quegli uomini furono o ancora saranno fra i governatori di questa città. In qualche stanza di questo palazzo c’è il nuovo sindaco, Elda Pucci, medico, cinquantenne, nubile, adamantina la quale dice: “L’ex sindaco Valenzi fu il mio maestro. Il modello al quale mi ispiro!”. Vincente oratoria.
A loro è lasciato il compito difficile di governare nel modo più garbato possibile, elaborare i grandi sistemi quali che siano, garantire che la macchina funzioni. Abbiamo revisionato, cambiato i pezzi logori, guardate come corre.
I DIECI PIÙ POTENTI DELLA SICILIA
I dieci più potenti della Sicilia
da “I Siciliani”, luglio 1983
Chi sono le dieci persone più potenti della Sicilia? La domanda è affascinante! Chi sono coloro che, per ragione della loro forza, possono veramente, profondamente influire sul destino dei siciliani e modificarlo nel bene e nel male, cambiare la faccia alle città e ai territori, cambiare la sorte di decine e centinaia di migliaia di persone, stravolgere il corso della loro vita senza che nemmeno essi se ne rendano conto, determinare la loro povertà o agiatezza, allegria o infelicità, consentire loro di continuare a vivere nel posto dove sono nati oppure costringerli a cercare campo e sopravvivenza in altri luoghi della terra? Chi sono in Sicilia le dieci persone che, più di ogni altra, possono tutto questo? La domanda è magnifica! Vale la pena di fare di tutto per rispondere!
Quando si parla di potere, quasi sempre si intende rozzamente qualcosa di nemico, più forte di te, implacabilmente più forte, e che può infliggerti prepotenza e dolore, e al quale tu non trovi modo di scampare. E nella realtà quasi sempre è così! Iniziando tuttavia questa nostra indagine (che non è inchiesta, e nemmeno studio, ma soprattutto scoperta), non vogliamo dare alcuna definizione morale del potere, ma semplicemente definire cosa sia e da cosa composta la facoltà umana concessa a poche persone di comandare su tutte le altre e quindi sulla società. Nel bene e nel male, ripetiamo. Tanto per esser perfettamente chiari, Luciano Liggio del quale si dice che abbia fatto assassinare una cinquantina di individui e che avesse (o abbia) la facoltà di influire su tutti i grandi avvenimenti mafiosi, è un uomo che ha sterminato potere. Lo ha usato maleficamente. Anche il cardinale Pappalardo, il quale con un suo sermone può sconvolgere milioni di fedeli e far tremare ministri dello Stato e costringere la folla mafiosa a ritrarsi per qualche tempo nel suo guscio, ha potere altrettanto sterminato. Lo ha usato finora beneficamente. Al di là del criterio morale, tutti e due, Luciano Liggio e il cardinale Pappalardo, hanno potere!
Chi sono dunque i dieci siciliani più potenti? La domanda è bella e inquietante! Cerchiamo dunque di fare il discorso più logico possibile, e quindi anzitutto di capire cosa effettivamente sia la potenza. Io ritengo che le sue componenti essenziali siano cinque: il denaro, la pubblica autorità, la capacità politica, la popolarità e il talento. Ho raccolto cinque piccole storie esemplari.
Accadde in una corte di assise non molto tempo fa. Si celebrava un processo per i delitti di assassinio continuato e strage. Dentro il gabbione c’erano almeno una ventina di criminali, ognuno dei quali, secondo l’accusa, aveva sulla coscienza cinque o sei omicidi. Il processo sembrava una tempesta. Il procuratore della repubblica era temerario e spietato, ogni volta che parlava era come se afferrasse per il bavero gli imputati e li sbattesse contro i ferri del gabbione. La sua passione per la giustizia talvolta diventava violenza. Ad un certo momento, in mezzo a quella piccola folla di uomini feroci che avevano ucciso tante volte senza battere ciglio e che, senza un tremore, lottavano per evitare l’ergastolo e che tuttavia, dinnanzi alla valanga di parole dure, taglienti del pubblico ministero, parevano talvolta smarrirsi e sbandare, in mezzo a quella piccola folla si alzò un grande mafioso, con il vestito nero, la cravatta nera, i capelli grigi, la grande testa di legno squadrata a colpi d’ascia, e levò il dito diritto come un’arma contro il pubblico ministero e disse: «Signor procuratore ora lei è là, su quello scanno, con il mantello nero, e sembra il padreterno, e io sono chiuso dentro questa gabbia, in mezzo a uomini impauriti, e se anche voglio andare a gabinetto debbo chiedere umilmente permesso a un carabiniere. Però, con mezza parola io posso far dare un appalto pubblico di cento miliardi a una impresa invece che ad un’altra, posso far fallire una banca, trovare o levare lavoro e guadagno per mille o diecimila persone. E lei no! Lei, signor procuratore, ha al suo comando battaglioni di carabinieri armati fino ai denti, mitragliatrici e autoblindo, e dietro di sé anche la fotografia del capo dello Stato e il Crocifisso, ed io invece le catene ai polsi e solo queste gracili mani per difendermi. Però, con un semplice gesto, o anche solo uno sguardo, io posso fare uccidere dieci o cento persone in qualsiasi parte di questa nazione, anche nel più profondo delle carceri, posso amministrare la vita e la morte di chi dico io. E lei no! Signor procuratore, qualunque cosa accada io sono più potente di lei. Quando parla, non se lo scordi mai!».
Un cavaliere del lavoro, al giudice che lo inquisiva per sospette trame mafiose e per una colossale frode fiscale, disse invece: «Signor giudice, come lei ben dice, io sono mostruosamente ricco, e la mia ricchezza è potenza, e la mia potenza sta devastando la società. Lei non possiede niente di tutto questo. E tuttavia, io che possiedo tutto, sono qui in piedi e impaurito dinnanzi a lei, attento a non sbagliare una sola parola che non possa suonare di rispetto per lei, attento a consentire, a negare, a sorridere, ad apparire devoto e sottomesso. E lei, che non possiede niente, assolutamente niente o quasi niente, sta dinnanzi a me come un padrone per giudicarmi, e secondo un suo malumore o inganno mentale… con tutto il rispetto può accadere… può offendermi con le sue domande, impormi di parlare delle cose sulle quali invece vorrei tacere, e viceversa ordinarmi il silenzio quando invece io vorrei parlare; e infine, secondo un suo terribile sbaglio o rancore personale, infliggermi umiliazione, danno o infelicità! Chi è più potente di noi due?».
Un giornalista ironico e intelligente, a chi gli chiedeva quale idea o stima egli avesse della sua professione, spiegò: «Io amo la mia professione come si può amare carnalmente una donna splendida e un po’ bagascia che ti tradisce con tutti e di cui però non riesci a fare a meno. Non c’è sentimento, è proprio un fatto di sesso. In questa società comanda soprattutto chi ha la possibilità di convincere. Convincere a fare le cose: acquistare un’auto invece di un’altra, un vestito, un cibo, un profumo, fumare o non fumare, votare per un partito, comperare e leggere quei libri. Comanda soprattutto chi ha la capacità di convincere le persone ad avere quei tali pensieri sul mondo e quelle tali idee sulla vita. In questa società il padrone è colui il quale ha nelle mani i mass media, chi possiede o può utilizzare gli strumenti dell’informazione, la televisione, la radio, i giornali, poiché tu racconti una cosa e cinquantamila, cinquecentomila o cinque milioni di persone ti ascoltano, e alla fine tu avrai cominciato a modificare i pensieri di costoro, e così modificando i pensieri della gente, giorno dopo giorno, mese dopo mese, tu vai creando la pubblica opinione la quale rimugina, si commuove, s’incazza, si ribella, modifica se stessa e fatalmente modifica la società entro la quale vive. Nel meglio o nel peggio!».
Un importante uomo politico meridionale, di quelli che reggono i dicasteri, che hanno morbida mano nel governare la cosa pubblica, che hanno astuzia, garbo, intelligenza, sufficiente cinismo e ironica crudeltà come si conviene ai padroni, soavemente spiegò quali fossero le ragioni della sua grande forza: «La forza consiste anzitutto nella saggezza con cui ogni uomo riesce ad amministrare i suoi rapporti. Voglio dire che la vera forza consiste soprattutto nel numero delle persone che ti sono devote, e quindi si fonda sull’amicizia, la riconoscenza, la gentilezza… avere cioè beneficato una infinità di persone che perciò ti saranno sempre fedeli… uomini anche potenti e ricchi, banchieri, deputati, artisti, ma anche poveri, analfabeti, ignoranti, malati e persino criminali, poiché beneficare uomini criminali ed avere la loro devozione non è immorale: immorale è considerare un uomo povero o criminale al livello della bestia. Ecco, io ho un’anima generosa che si lascia sedurre, che si concede a tutti, chiedendo in cambio piccoli prezzi di affetto e devozione. Questa è la mia grande forza: io ho un’anima puttana!».
Infine un grande scrittore del Sud, che ha un sovrano concetto del talento e quindi di se stesso, e che talora maestosamente si concede per qualche minuto alla curiosità degli altri, ai convenuti di un salotto intellettuale dove si dibatteva il tema appunto del genio, disse: «Alla fine nella società prevale sempre il talento, cioè l’intelligenza pura, cioè il genio. Il genio scansa persino le malattie, allontana da sé persino la morte, il genio ama le donne provando un piacere infinitamente maggiore di qualsiasi altro, e se scoppia una rivoluzione riesce sempre infallibilmente a stare insieme ai trionfanti vincitori. Quelli che finiscono dinnanzi a un plotone d’esecuzione sono finti geni, sono imbonitori, sono minchioni. Il genio è anche intuizione della storia, il genio è anche saper prevedere chi vincerà le battaglie decisive e, mentre i fumi della lotta ancora gravano sul campo, farsi trovare già seduto al tavolo di chi detta le condizioni di pace. Un libro, un solo libro scritto nel momento giusto, con una giusta storia, può modificare il corso politico di una nazione!». Naturalmente stava parlando del suo genio. A chi gli chiedeva quale suo libro avesse modificato il destino politico della nazione, egli rispose con un enigmatico sorriso.
Ecco dunque le componenti essenziali del potere: il denaro, l’autorità dello Stato, la forza politica, la popolarità e il talento. Naturalmente ognuna di queste componenti non ha eguale forza e capacità di influenza sulla società. Tanto più vale questo principio e bisogna essere attenti nella valutazione, in quanto stiamo parlando di una società, quella siciliana, profondamente diversa da qualsiasi altra e nella quale l’animo umano è condizionato da suggestioni, bisogni, speranze, dolori, sogni completamente diversi che in qualsiasi altra regione d’Europa. E’ evidente infatti che, in una società di tutti ricchi, il denaro è disponibile per tutti e quindi la sua forza di convinzione è mediocre. In una società di tutti ricchi, chi volesse trovare un killer per fare assassinare un suo nemico, non può trovarlo con cinque o dieci milioni, ma dovrà pagare un miliardo. In una società nella quale i poveri sono la maggioranza, e centinaia di migliaia di esseri umani debbono lottare ogni giorno per la sopravvivenza, trovare un uomo che, per denaro, cioè per guadagnarsi tale sopravvivenza, sia disposto a uccidere un altro uomo (magari mai visto e mai conosciuto) è infinitamente più facile. Orribilmente più facile. In una società povera il valore del denaro cresce in misura inversamente proporzionale al numero dei poveri ed al grado della loro miseria, alla vastità del loro bisogno, alla impossibilità di risolvere in altro modo il problema della esistenza. In tal caso il denaro può tutto: pagare efficienti killer per eliminare avversari e concorrenti, acquistare amicizia e complicità della sordida folla dei politicanti minori, creare posti di lavoro e guadagnare quindi la devozione di migliaia di cittadini, gestire trionfalmente una squadra di calcio e conquistare l’amore di decine di migliaia di individui. Non è vero che le banche siano il simbolo del potere nei paesi più progrediti dell’Occidente. Le banche sono rappresentazione ed esercizio del potere, soprattutto nei paesi poveri dove infelicità o contentezza di un uomo o di una famiglia dipendono da piccole somme di denaro. Non a caso la Sicilia è la regione italiana che conta più banche di qualsiasi altra. Ebbene, se valutiamo in 100 la cifra totale del potere, cioè la somma di tutte le sue componenti, allora dobbiamo dare al denaro almeno una quota percentuale di 30.
L’autorità, quella legittima, quella che proviene dalla rappresentanza dello Stato. Molto più gracile del denaro. Siamo in un territorio della nazione dove lo Stato per suo distacco mentale, lontananza, paura, strafottenza, non è riuscito mai ad imporre una sua certezza e presenza. Assente lo Stato, e quindi la forza e certezza della legge, anche la giustizia è stata incerta, talvolta sgomenta, spesso abbandonata al suo destino di impopolarità. Tradita dallo Stato, accerchiata da forze oscure e prevalenti, la violenza e l’intimidazione criminale, il terrore e quindi la diserzione del testimone, l’adescamento dei politici, la giustizia ha spesso, a sua volta, tradito lo Stato, si è lasciata corrompere, o vincere, o ricacciare inerme nel buio dei suoi vecchi palazzi. E tuttavia forse proprio per questo, per questo vivere dentro una società drammatica e complessa, l’autorità può esercitare una profonda influenza sulla evoluzione siciliana. Un magistrato imbelle, impaurito, disponibile alla corruzione o alla intimidazione politica, può stendere una inviolabile cappa nera su infami e giganteschi eventi siciliani, far sparire prove essenziali su un efferato delitto, ritardare indagini, deformare le conclusioni, consentire dilapidazioni gigantesche di pubblico denaro. E viceversa un giudice onesto, coraggioso, cosciente (l’esempio viene da quello che accade in questi mesi a Palermo) può fermare la mano degli assassini, paralizzare il mercato della droga, vanificare un appalto truffaldino di cento miliardi, ricacciare nelle tane i burocrati e i politici corrotti. Nell’un caso e nell’altro un giudice può dunque profondamente influire sulla devastazione o sulla evoluzione della società siciliana. Rispetto a quel 100 del potere totale, la componente-autorità vale almeno dieci. Non è molto!
La forza politica! In una grande e cosciente democrazia l’uomo politico sa di dover rendere conto alla coscienza severa del cittadino e al suo giudizio morale. In Italia questo non accade; in Italia i partiti sono i soli depositari ed usufruitori del concetto democratico: essi stabiliscono le linee politiche di governo, formano le liste dei candidati, amministrano la spartizione del potere. La grande forza di un uomo politico, a qualsiasi livello, non è il vigore trascinante del suo pensiero, la intelligenza delle sue proposte, la passione del suo pensiero pubblico, ma semplicemente il suo privato, cioè la consistenza degli infiniti rapporti privati che egli mantiene con i cittadini, gli enti, le associazioni, i gruppi, le camarille, le aziende, le imprese, gli amici, i clienti, i segretari di sezione, gli ospedali, le scuole. La forza di un uomo politico, perciò, non dipende mai (quasi mai) dalla pubblica riconoscenza per la vastità delle sue proposte ideali, ma soprattutto dalla capacità, astuzia e tempestività con cui ha saputo dare privatamente ai cittadini elettori quello ch’essi gli chiedevano. Un uomo politico che abbia trentamila o trecentomila voti di preferenza, può ben dire che quei voti sono suoi, e basta. Non a caso, trasmigrando in un altro partito, egli se li porta appresso. E appunto per questo, per la sua indipendenza dalla coscienza popolare, l’uomo politico italiano è più forte che in qualsiasi altra democrazia. Tanto più forte in Sicilia dove, fatta eccezione per i due furenti deliri, prima nero e poi rosso di Catania, le posizioni politiche sembrano cristallizzate. La forza privata, cioè personale dà all’uomo politico siciliano una grande forza pubblica, che a sua volta ridiventa possibilità di influire profondamente su ogni interesse privato che abbia una connessione con la cosa pubblica. Sembra un concetto astruso e invece è estremamente semplice. Su un valore 100 del potere assoluto, la forza politica vale trenta. Alla pari con il denaro.
La popolarità? Più esattamente la possibilità di intervenire sulla pubblica opinione, formandola e modificandola, e così formando e modificando gli eventi. Questa è una componente enigmatica. Nella realtà la Sicilia è una delle regioni europee di più rozze tradizioni nel campo della informazione: si comperano meno giornali che altrove, si leggono meno libri. Un antico e amaro rifiuto culturale determinato in massima parte dalla piaga dell’analfabetismo, dalla inalterata povertà della popolazione, dalla lontananza delle grandi forze culturali. E tuttavia, forse proprio per questo distacco popolare, i pochi strumenti di informazione che sono riusciti a consolidarsi sul territorio dell’isola e se lo sono spartito (a ognuno il proprio inviolabile feudo) hanno una determinante forza di persuasione. Non stiamo parlando dei giornalisti, che possono adoperare questa forza solo a livello di piccoli problemi, ma dei padroni degli strumenti di informazione. Certo ci sono lotte di singoli o di gruppi per rivendicare libertà assoluta di informazione e indipendenza critica, ma la regola massima è sempre quella, e cioè che le macchine della informazione appartengono al padrone, e quindi anche pensieri e idee di coloro che usano le macchine per informare la società, debbono essere quelle dei padroni. Il cui potere, ingigantito dalla impossibilità di opposizione, può garbatamente amministrare anche la fortuna degli altri, agevolare o contrastare le grandi potenze economiche, ostacolare o favorire gli accumuli di ricchezze, determinare la destinazione del denaro pubblico, la crescita o la decadenza di un uomo politico, la sonnolenza o la ribellione di un grande organo giudiziario. A volte basta omettere una sola notizia e un impero finanziario si accresce di dieci miliardi; o un malefico personaggio che dovrebbe scomparire resta sull’onda; o uno scandalo che sta per scoppiare viene risucchiato al fondo.
C’è stata una rivoluzione in questo campo. L’avvento delle televisioni private, moltiplicando gli strumenti di informazione, pareva avesse stravolto gli antichi assetti di potere, determinando una caotica ma febbrile evoluzione della conoscenza popolare; ma lo strumento è dapprima decaduto a semplice e spesso squallido spettacolo, e infine, con il sopraggiungere dei net-work è stato anch’esso consegnato nelle mani dei tradizionali padroni dell’informazione. I quali, a loro volta, sentono sul collo il fiato greve del grande capitale settentrionale. Quella che poteva essere una grande rivoluzione tecnica e civile, cioè una autentica presa di potere da parte di un giornalismo inteso nel senso più alto e morale del termine, si è risolta in una ulteriore colonizzazione culturale. Nella composizione del potere, rispetto al valore assoluto 100, questo elemento poteva valere anche 50. Non vale più di 15.
Il talento. L’intelligenza. Il genio! Non è rimasto più di un residuo 10 per cento. In Sicilia, ai fini del potere, non crediamo che valga molto di più, soprattutto se esso non si adatta, anzi se non coincide con qualcuna delle altre componenti di potere. Venti anni fa Leonardo Sciascia scrisse “Il giorno della civetta” e modificò il concetto di mafia nella mente degli italiani, soprattutto modificò il rapporto fra la coscienza degli italiani ed altre forme di potere fin’allora ritenute inviolabili, il grande clero, la giustizia, gli uomini di governo. Il talento fece un grido e tutte le altre cose che sembravano di ferro, improvvisamente si incrinarono. Ma non è stato scritto più alcun altro “Giorno della civetta”. Nemmeno da Sciascia.
L’ULTIMA ESTATE SENZA I MISSILI
Ultima estate senza missili
da “I Siciliani”, settembre 1983
Quella che segue è la piccola storia, anzi il documento di una sconfitta, patita dai siciliani per nome e per conto degli italiani e degli europei. L’estate che volge al termine è infatti l’ultima estate che i siciliani vivono senza i missili atomici, cioè ancora con la speranza che, nel caso di guerra fra le grandi potenze, la Sicilia possa essere esclusa dai bersagli nucleari. La prossima estate sarà diversa: nella coscienza di tutti i siciliani, ricchi o poveri, geni o imbecilli, onest’uomini o lazzaroni, ci sarà la certezza dell’olocausto atomico in caso di conflitto. Una certezza di morte che resterà piantata nell’anima di questa generazione e di tutte le generazioni che verranno. La gente siciliana riderà e accumulerà quattrini, ma avrà piantata nell’anima questa certezza: se scoppia una guerra io, la mia famiglia, la mia roba, i miei soldi, le mie case, le mie risate e le risate dei miei amici, tutto questo morirà e sparirà in un lampo. Certo la gente siciliana continuerà a innamorarsi, e patire gelosie, sentimenti, infelicità e sogni, farà all’amore e concepirà figli, e li metterà al mondo, e insegnerà loro le prime parole, spiegherà loro: questo è l’azzurro e questo il rosso, figlio mio, questo è il sole e questa la notte, e questa l’alba, il ruscello, la musica, l’erba, il fiore, il carabiniere, il prete, le montagne, il mare, ma avrà piantata nell’anima quella certezza: se scoppia una guerra, l’azzurro e il rosso, l’erba, i fiori, la musica, il carabiniere e il mare, e tutte le cose che ho spiegato a mio figlio, ed anche mio figlio, tutto morirà e sparirà in un lampo. La prossima estate i bambini che ora hanno cinque, otto, dieci anni, acquisiranno l’incontestabile diritto, fra quindici, venti o trent’anni, a sputare in faccia ai loro padri, chiedendogli: e Tu, quando decisero di installare i missili a Comiso e quindi – per qualsiasi futura guerra mondiale – di offrirci al sicuro sacrificio atomico, Tu dov’eri?
Questa è la cronaca e quindi il documento di una sconfitta! E’ inutile che stiamo ancora qui ad ingannarci con cose vecchie e inutili: il generoso slancio delle popolazioni siciliane, la passione di migliaia di giovani accorsi da tutta Italia, la coscienza civile della gente di Comiso, le veementi polemiche in Parlamento, ed altre inutili e sapute cose. Se vogliamo valutare la tragica vastità della sconfitta, bisogna avere l’onesto coraggio di guardare le cose come veramente accadono. Nella realtà l’opinione pubblica siciliana, quella erede dei Vespri e dei picciotti garibaldini, è rimasta inerte e sonnolenta dinnanzi all’evento; assume sinistra verosimiglianza la battuta del Gattopardo, il quale diceva all’emissario piemontese: i siciliani hanno la presupponenza di essere i migliori e d’aver vissuto, per migliaia di anni, tutto quello che c’era da vivere, e così rassomigliano alla vecchia paralitica condotta in carrozzella ad ammirare le meraviglie della tecnica all’esposizione universale della scienza, ma in verità essa, però, agogna soltanto d’essere ricondotta al suo giaciglio di casa e al suo orinale!
Questo popolo siciliano, che pure ha dato alla civiltà europea i più grandi narratori, scrittori di teatro, musicisti, scienziati, che per tremila anni è stato violentato dai barbari di tutta la terra e sempre è riuscito a sopravvivere, lui sempre vinto a tutti i vincitori, questo popolo così disperatamente legato alla vita, come nessun altro, capace di spogliarsi di un milione di suoi cittadini e mandarli emigranti per il mondo per aiutare a vincere il dolore e l’infelicità di tutti, evento di incredibile grandezza e bellezza umana, questo popolo è ancora convinto di poter stare dentro la storia lottando ognuno solo per il suo privato. Assume maligno significato anche quello che scrive uno dei più importanti giornali europei, il «Frankfurter Allgemeine Zeitung», e cioè che i siciliani sono sensibili e furiosamente si avventano contro chicchessia, solo quando viene messo in dubbio l’onore della madre o della sorella. Il resto, sia pure l’imminenza dell’apocalisse, non è affar loro! Che l’apocalisse avvenga, i siciliani poi riemergeranno dal buio della storia e continueranno ad esistere.
E’ inutile che stiamo qui ancora ad ingannarci. Migliaia di giovani sono venuti a Comiso da ogni parte d’Italia e d’Europa per protestare contro l’installazione dei missili, ed hanno fatto accampamenti attorno alla base NATO, assediato i cancelli, gridato slogan e suonato le chitarre, presi calci e mazzate dalla polizia, persino fermato per quarantott’ore i lavori di costruzione degli impianti, ma in verità buona metà di loro era discesa per una bella e appassionante estate in Sicilia, in quella gradevole valle degli Iblei. Si poteva suonar chitarra e fare all’amore, a venti chilometri c’era il mare, e dalla parte opposta Chiaramonte con la sua salsiccia e, per tre mesi, l’appassionante illusione di stare dentro una cosa che stava modificando la storia contemporanea. E invece la storia è passata anche sopra i loro patetici giorni di luglio e d’agosto, finché essi hanno smontato le tende e rimesso gli zaini in spalla, e sono scomparsi per le loro lontane città, migliaia di chilometri lontano da questa vallata degli Iblei, e la storia, quella futura, corazzata e intatta, ha continuato ad andare. Sconosciuti ingegneri che mai conosceremo hanno avvitato gli ultimi bulloni ai Cruise, e navi segrete accendevano già le macchine per attraversare l’Atlantico, misteriosi generali di cui non conosceremo mai l’identità, facevano gli ultimi calcoli per decidere come e a chi sarebbe toccato premere il bottone rosso; e in un altro mondo, sull’altra faccia della terra, altri scienziati e generali d’identità ancora più remota, completavano i calcoli per stabilire come e quando, e con quante testate nucleari, si poteva avere certezza di uccidere cinque milioni di siciliani.
Inutile che stiamo qui ad ingannarci e parlar di cose che vorremmo fossero, evitando di guardare quelle che invece esistono.
La buona gente di Comiso ha accettato i missili in casa. Taluni sono insorti ma sono stati sbeffeggiati, se avevano un partito spesso rinnegati dal loro stesso partito. I più hanno pensato a quanto sarebbe cresciuta di valore la terra, e quali potevano essere le aree fabbricabili, e quanti alberghi, motel, ristoranti, macchinette di war-game, bettole, botteghe di pizzicagnoli, appalti di trasporti, servizi, pulizie, potessero abbisognare agli americani, e quale dunque l’affare più lucroso, e come farsi pagare in dollari, qualcuno certo avrà persino riflettuto che l’ottanta per cento degli americani saranno giovani, e il cinquanta per cento scapoli, e segretamente sta già radunando ragazze per case d’appuntamento. Qualcuno s’è tanto incazzato degli oppositori che li ha presi addirittura a revolverate. La stampa quotidiana lo ha garbatamente definito un cittadino esasperato dai continui clamori. Quasi tutti i giornali hanno da pensare soprattutto all’onore delle madri e delle sorelle.
E noi dovremmo star ancora qui ad ingannarci?
Le polemiche in Parlamento, i veementi attacchi contro il governo per la clamorosa bastonatura dei dimostranti, le furenti richieste per il trasferimento del questore responsabile, la rivendicazione dell’inviolabile diritto del cittadino a dimostrare pacificamente per i propri ideali: tutti parlarono, a tutti rispose Craxi sornione affermando che il governo non avrebbe mai più permesso che pacifici giovani potessero essere brutalmente manganellati, e che nessuno tuttavia poteva illudersi di esercitare impunemente violenza contro le forze dello Stato. Perfetto! Per tre ore parlamento e governo appassionatamente duellarono su quella gragnuola di manganellate agli inermi pacifisti, ma nemmeno per un attimo in quella che pure era l’occasione perfetta (replica alle dichiarazioni di voto per il nuovo governo) si chiese e si dibatté cosa disperatamente si poteva ancora fare per impedire l’installazione della base atomica a Comiso.
Essi parlavano, cioè essi i facitori della storia italiana, il bene e il male, contentezza e infelicità di un popolo, la vita e la morte, e la storia passava anche su di loro, gli ingegneri continuavano ad avvitar bulloni, le navi partivano da misteriosi moli, Craxi sornione, Berlinguer sottile e dolente, Andreotti sorriso di pietra per aver finalmente sotterrato Fanfani, Zanone euforico, Pietro Longo felice che la mamma potesse guardarlo da ministro in televisione, Pannella sempre più somigliante a Pippo Baudo, Martelli cosí potente e tuttavia ancora sì teneramente giovane, e intanto la storia continuava a passare.
La maestà del parlamento italiano come il pudore morale della donna secondo Pitigrilli, il quale scrisse: quando la più orgogliosa delle donne è supina, con le gambe aperte sotto il peso del maschio, il suo residuo pudore morale ha lo stesso valore di un cartellino “Vietato fumare” appeso all’arco di trionfo sotto il quale passa la soldataglia nemica pazza di saccheggio.
Questa è l’ultima estate dei siciliani senza l’atomica. Al di là delle infinite, piccole, miserabili cose accadute o che stanno accadendo, questa è la storia di una sconfitta, tanto più amara quanto più brutale, e tanto più brutale in quanto ingloriosa e vile. Soprattutto infame perché nessuno ha realmente capito cosa tale sconfitta significhi.
A questo punto, allora, si tratta di accettarla per quello che rappresenta – una sconfitta siciliana – e ribellarsi tuttavia all’idea che essa possa diventare una definitiva sconfitta dell’uomo. Strapparla cioè finalmente dal nostro privato e porla come tragedia dell’umano. In altre parole la sconfitta di Comiso, pur drammaticamente esistenziale per tutti i Siciliani e tuttavia minuscola nel contesto storico contemporaneo, è soltanto un episodio dinnanzi alla ipotesi di guerra nucleare.
La proliferazione delle armi atomiche, sempre più spaventosamente precise e potenti, è tale infatti che, nel caso di un conflitto globale fra Russia e America, nel volgere di dieci minuti, un’immane ondata di fuoco percorrerebbe i continenti, distruggendo l’ottanta per cento della vita esistente: città, paesi, industrie, musei, cattedrali, tutto quello che l’uomo ha realizzato in decine di migliaia di anni, compresa quest’ultima generazione vivente, sparirebbe in un solo lampo.
Pochi superstiti, pazzi di dolore e terrore, emergerebbero dai rifugi di piombo, per agonizzare ancora per qualche mese nel deserto. L’ipotesi che l’uomo, questa superba creatura dell’universo, per un attimo di orgoglio, per un sinistro abbaglio di follia, possa suicidarsi, fare della terra una grande luna rovente e deserta, è forse nel conto di Dio o del diavolo, nei calcoli del loro infinito gioco per l’appropriazione dell’universo. E’ ipotesi verosimile.
Bene lo sanno Russia e America, scientificamente convinti che in una loro guerra non ci sarebbero vincitori e vinti. In questo senso (e non è questo forse un sintomo di probabile pazzia?) l’equilibrio del terrore, cioè la parità degli armamenti nucleari, ha rappresentato finora una tragica garanzia di pace. La evoluzione della scienza nucleare ha vanificato tuttavia anche questo miracoloso paradosso, consentendo a potenze di grado sempre più modesto di acquisire capacità tecniche nucleari tali da potere costruire, nel giro di pochi mesi o settimane, ordigni di incredibile potenza, sufficienti a distruggere una intera nazione. Almeno cinquanta potenze subalterne, Argentina, Giappone, Canadà, Australia, Brasile, Israele, Egitto, India, Corea, Vietnam, forse anche Turchia, Cile, Uruguay, Venezuela, Sud Africa, Kenia, sono tecnicamente in condizione di fabbricare ordigni atomici, mille volte più potenti della bomba di Hiroshima, e missili vettori capaci di portarli nel cuore di uno Stato nemico a cinquemila chilometri di distanza.
Al di là dell’ipotesi di un conflitto fra Russia e America, cioè fra est ed ovest, e quindi della catastrofe totale, il pericolo imminente è soprattutto quello di una tragica guerra convenzionale fra due potenze minori (Iran e Iraq ad esempio, Israele e Siria) che possa portare improvvisamente ad una degenerazione atomica, e da questa fatalmente, per degenerazioni sempre più alte e tragiche, ad una guerra mondiale. Al grande suicidio collettivo.
Contro questa ipotesi di morte c’è solo una ipotesi di salvezza: il disarmo atomico graduale, con una certezza assoluta di controllo, e contemporaneamente la impossibilità tecnica e politica che in qualsiasi altra parte del mondo possano essere costruite armi nucleari. C’è un aspetto tragico del problema ed è questo il punto: resta poco tempo per risolverlo, forse pochissimi anni, due o tre appena. Allo stato attuale infatti esistono ordigni tecnici, satelliti e aerei spia, in condizione di controllare dall’una parte e dall’altra gli arsenali nucleari delle grandi potenze. La denuclearizzazione può essere garantita. La micidiale evoluzione della scienza atomica e missilistica potrebbe tuttavia rendere presto impossibile questo controllo, anche a livello di ipotesi. Ad esempio i Cruise, per la loro ridotta dimensione, poco più di sei metri di lunghezza e sessanta centimetri di diametro, possono essere imboscati dovunque, in un burrone, una foresta, una caverna, una vecchia chiesa, un capannone industriale. Possono sfuggire a qualsiasi controllo. C’è una ipotesi da fantascienza criminale, tuttavia perfettamente verosimile, e cioè di un gruppo mafioso o terrorista che riesca a detenere dieci Cruise: li potrebbe intanare in una vecchia fattoria, un magazzino sperduto, persino in un garage al centro della città. Potrebbe ricattare un continente. Viviamo già dentro il terribile futuro e non ce ne rendiamo conto, non abbiamo nemmeno i James Bond che potrebbero salvarci, non riusciamo a disarmare i mafiosi nemmeno dei Kalashnikoff, figuriamoci!
Ecco, fra due, tre, cinque anni, decine di piccole potenze saranno probabilmente nelle condizioni tecniche di potersi fabbricare missili Cruise con testata atomica. Quel giorno il disarmo nucleare non sarà più possibile, perché non più controllabile, tutta l’umanità vivrà su un’immane polveriera, alla mercé di un qualsiasi tirannello sudamericano, balcanico, mediorientale, asiatico, africano. Guardate la mappa delle piccole, ferocissime guerre che si stanno combattendo in questo momento sulla terra: vi sono impegnati uomini di Stato sufficientemente crudeli e dementi da reagire alla imminenza di una disfatta con un assalto atomico.
Allora, dinnanzi a questa ipotesi che è appena dietro l’angolo della nostra esistenza, e comunque mortalmente dentro l’esistenza dei nostri figli, la sconfitta di Comiso, pur così apparentemente sparuta nel grande gioco della politica mondiale, assume una sinistra, immensa importanza: a Comiso stanno per essere montati appunto i micidiali Cruise! Uno degli ultimi lampi prima della tempesta. Che poi sarebbe l’apocalisse. Se questo non lo capiscono tutti gli uomini, il bottegaio di Comiso e il Presidente del consiglio Craxi, il politico palermitano e l’industriale di Milano, il barbiere di Agrigento e lo studente di Napoli, tutti, tutti, il mafioso e il giudice, il camorrista e il carabiniere, il bracciante e il generale, il borsaiolo e il medico, allora significa che viviamo irreparabilmente in un mondo di dissennati imbecilli, in una generazione demente che prepara il grande olocausto: un grande mucchio urlante sullo stesso autobus lanciato verso l’abisso e ognuno, occhi minacciosi e mani protese, angosciato solo di tappare gli inverecondi buchi di madri e sorelle per proteggerne l’onore.
Questa è dunque la cronaca e il documento di una sconfitta patita dai siciliani a Comiso, la cronaca dell’ultima estate prima dei missili atomici. E da questa estate, da Comiso appunto, dovrebbe partire la rivoluzione umana, una immensa, dilagante rivoluzione morale, civile, politica, al di là di tutti gli ideali che non siano quelli dell’uomo e della vita, ben al di là degli interessi di qualsiasi partito o movimento politico, affinché almeno i governi europei siano costretti a subire, cioè riconoscere e tradurre in atti politici, questa immensa rivolta popolare. Non bastano i campus, le marce della pace, i sit-in, gli scioperi della fame, gli assedi alle basi NATO, le chitarre, i cartelli, dinnanzi a queste infinitesime cose ride l’intelligenza maligna che sta conducendo il mondo alla morte. E’ necessaria un’azione che coinvolga ogni volta un intero popolo, milioni di persone, siano essi siciliani, piemontesi, liguri, napoletani, o comunisti, democristiani, socialisti, liberali, repubblicani, tutti però legati alla medesima idea di vita. Le ultime elezioni sono state una drammatica occasione perduta: si sarebbero dovuti eleggere al Parlamento soltanto uomini che, ognuno fedele al proprio schieramento politico, assumessero tuttavia impegno di portare in parlamento, prima d’ogni altra, la battaglia per il disarmo nucleare. In Italia, come in Germania, Francia, Inghilterra, Svizzera, Spagna, Olanda, Belgio, Svezia. Questa può essere già una decisiva arma pacifica in una rivoluzione che, essendo fatta per la salvezza dell’uomo, al limite, potrebbe anche riconoscere morale qualsiasi altra maniera di combattere.
Questa è la cronaca della sconfitta di Comiso, ma è anche il grido di una ribellione che ogni uomo dovrebbe sentire nell’anima. Lo affidiamo ai siciliani, ancora una volta sconfitti dalla storia, e a tutti gli altri uomini che capiscono d’essere rimasti sconfitti insieme ai siciliani. Lo scienziato americano Jonathan Shell, spiegando perché proprio i Cruise rappresentino una svolta della storia nucleare, ha disegnato il perfetto teorema della morte atomica: è come se d’un tratto l’umanità si fosse allontanata mille miglia dalla sua salvezza.
Da qui l’urgenza disperata della lotta. Tutto in realtà sembra compromesso dalla stupidità e dalla pazzia. Lo stesso siciliano contento, che arma bottega e bordello a Comiso, in vista dell’installazione della base atomica, ne è la rappresentazione vivente. Ma Jonathan Shell cita Gramsci: il pessimismo della ragione e l’ottimismo della buona volontà. Quando la vita è in gioco!
ARRINGA IN DIFESA DEL CAVALIERE MAFIOSO
Arringa in difesa del cavaliere mafioso
da “I Siciliani”, ottobre 1983
Quand’ero giovanissimo, poco più di vent’anni, io feci per qualche tempo l’avvocato. Non fui granché! In campo civile mi tediava la ricerca della giurisprudenza, il linguaggio delle citazioni e comparse di risposta, le scadenze delle procedure, un paio di volte m’inventai letteralmente citazioni di sentenze di cassazione che non erano mai state emesse, e il tribunale ne tenne conto, sicché capii che anche i giudici si rompevano le scatole a controllare la giurisprudenza. E questo mi deluse.
Altre volte sbagliai i termini di notificazione e i miei clienti, che ragionevolmente speravano di ottenere verdetti favorevoli per acclamazione, si videro invece annientare da sentenze contrarie. Alcuni di loro mi attesero poi per mesi sotto casa, con pesanti randelli. E questo m’impaurì!
Arrivavo in ritardo alle udienze, mi appassionavo solo alle cause in cui i miei clienti avevano ragione: le altre in cui avevano torto mi facevano schifo, tutto ciò era contrario alla professionalità di un buon avvocato il quale deve avere un animo di pietra, né mai valutare il torto o la ragione etica della causa, ma semplicemente la possibilità di vincerla.
Nel penale praticamente era ancora peggio, poiché mi commuovevo. Per me il penale era semplicemente una grande avventura poetica. Sceglievo i clienti, che fossero soprattutto poveri e innocenti, questa lotta fra la vittima e l’ingiustizia mi dava profonde emozioni, ma non era redditizia, gli innocenti quasi sempre sono ugualmente condannati, e chissà perché sono quasi sempre indigenti, e comunque non pagano. Praticamente feci la fame. La mia avvocatura, dicevo, non fu davvero granché!
E tuttavia ancora oggi, dinanzi a eventi o personaggi che tutti accusano, mi viene talvolta l’irresistibile fantasia, la nostalgia, il sogno di potermi gettare quella vecchia toga sulle spalle, e difendere qualcuno dinanzi a una grande corte di giustizia. Un imputato già quasi fatalmente condannato, una causa che sembra irrimediabilmente già perduta!
Ecco, dinnanzi ad un grande tribunale, mi piacerebbe fare un’arringa in difesa di un mafioso, meglio se cavaliere del lavoro, contro il quale fossero state scoperte irrefutabili prove e, per esse, condotto in catene dinnanzi ai giudici. Che io immagino severi e integerrimi, così come il pubblico dovrebbe essere composto da cittadini di assoluta onestà, buoni padri di famiglia di ogni condizione sociale, e quindi anche accademici e manovali, chirurghi o impiegati municipali, e tutti alieni d’ogni interesse pubblico affinché la loro serenità morale non possa essere turbata da alcuna paura o avidità.
Immagino la luce e il solenne silenzio dell’aula, il piccolo crocifisso nero appeso alla parete di calce. L’imputato è nella gabbia, immobile, forse anche elegante, forse con i capelli grigi. Età indefinibile. Più che un uomo vivente è il monumento di se stesso. Non parla, trasale, non guarda nessuno in faccia, non ha chiesto considerazione, né chiede ora clemenza, né potrebbe chiederla non avendo mai confessato. Eretto, malinconico, immobile, egli attende. Per un imputato così, in una nazione così, possibilmente dinnanzi alla giustizia di Catania, mi piacerebbe essere quell’avvocato che non riuscii ad essere e che avrei potuto diventare.
Paludato dalla vecchia toga, dinnanzi a quegli inviolabili giudici e quel pubblico di galantuomini, svolgere la seguente arringa. Da iniziare con un tono sommesso, affabulante, proprio con un tenue gesto per indicare l’imputato:
Signori della Corte, consentitemi di iniziare con un gentile ricordo; quel lontano giorno in cui il Presidente della Repubblica consegnò al mio cliente le insegne di cavaliere del lavoro. Abbracciandolo e baciandolo, il grande vegliardo testualmente disse: «Bravo cavaliere, lei fa onore alle virtù italiane, tenacia, fantasia, laboriosità e intelligenza. Le sono grato a nome di tutti gli italiani. Congratulazioni!». Il capo dello Stato sapeva già allora quanto il mio difeso fosse ricco, e le sue parole significarono dunque che la ricchezza non è un reato.
In effetti il Cavaliere possiede terre, industrie, banche, ville, quadri, gioielli e capolavori d’arte, le sue campagne sono rigogliose di grano, ulivi, aranci, frutti e fiori, i suoi splendidi palazzi sono disseminati in tutte le grandi capitali europee, nelle sue fabbriche si possono costruire navi, giocattoli, vestiti, scatolette di carne, cervelli elettronici, trattori, concimi chimici, oggettini sacri, gabinetti, stufe, bidet, e se egli volesse anche cannoni e mitragliatrici. Io non so quale sia la vostra idea, ma probabilmente oltre che ricco lo ritenete anche felice, poiché pensate che tanta spaventosa ricchezza possa dare a un uomo tutto quello che egli desidera.
E in verità gli piacerebbe avere un’amante diciottenne, alta, delicata, dolce, capace di straordinarie invenzioni erotiche, ma egli non ha tempo. Gli piacerebbe nuotare in una delle sue piscine, giocare a tennis in uno dei suoi roof-garden, coltivare piccole orchidee, giocare a tressette e scopone con gli amici, ma egli non ha tempo. Gli piacerebbe camminare per strada da solo, bighellonare a guardare la gente e le vetrine, incontrare dimenticati compagni di scuola e parlare con loro dei vecchi amori, andare per taverne e bigliardi, ma egli non ha tempo. Egli non è felice. Se essere felice per ragione della soverchia ricchezza, in un Paese tormentato dalla miseria dei più, può essere ritenuta una colpa, ebbene io posso garantirvi che egli non è felice…»
I giudici guardano già con un sorriso ironico, pensano: chiacchiere, i capi d’accusa sono ben diversi, i reati più infami. Essi guardano perciò con sfottente benevolenza, ma non immaginano, non sanno cosa li aspetta. L’arringa continua, il tono gentile è finito, la voce comincia a diventare sferzante:
Stabilito dunque che né la ricchezza, né la sospetta felicità di quest’uomo costituiscono reato e ch’esse pertanto non possono indurvi a rancore, odio o pregiudizio contro l’imputato, quali colpe possono averlo trascinato qui in catene? Egli non ha mai personalmente operato violenza fisica contro alcuno, mai ucciso di suo pugno o tentato di uccidere, mai picchiato o levata la mano per un semplice schiaffo. E allora? Allora voi dite: associazione per delinquere di stampo mafioso! Perfetto! Ci siamo! Ordunque prima di proseguire nella convinta e appassionata dimostrazione d’innocenza del mio difeso, io voglio umilmente invitarvi a guardare la società nella quale viviamo. Oh, non che io abbia voglia di tediarvi con le solite, vecchie retoriche sulle disparità e ingiustizie sociali, sui poveri abbandonati al loro destino, sul Nord avido e speculatore e il Sud ignorante e depredato, sulla moltitudine di esseri umani costretti ad abbandonare case e famiglie per migrare sulla faccia della terra… Tali cose sono state dette tante volte e non è cambiato niente nella nazione, sicché non vale più la pena. Tutte cazzate. Lasciamo dunque perdere poveri, umili, diseredati, disoccupati, pensionati, rompono le palle, facciamo conto che siano tutti morti oppure definitivamente schiavi senza diritto di parola. Il discorso è diverso: se qualcuno non è d’accordo, che venga subito avanti a smentirmi!
Pausa. Gesto gentile, ma perentorio di sfida:
Io qui voglio parlarvi infatti di società e potere, cioè di questa parte della società, l’unica che conti in questo paese e per la quale l’unica cosa che conti è il potere. Il grande gioco appunto, nel quale ognuno si serve di tutti gli altri o soltanto di colui che in quel momento gli è utile, abbandonandolo subito quando non serve e cercandone un altro che magari ieri era nemico e oggi invece serve da alleato, e domani tradendo anche costui, per un altro alleato ancora più importante, l’uomo politico stringendo accordi col feroce criminale per avere i voti di un territorio, e il criminale cercando a sua volta il banchiere che gli consenta di nascondere migliaia di miliardi della droga, e il banchiere cercando ministri e generali che gli consentano tali gigantesche frodi, e costoro scatenando il terrorismo perché il popolo, travolto dalla paura, continui a concedere la sua stima ai governanti, e costoro a loro volta circuiti dai grandi operatori dei capitali per usufruire ed appropriarsi del denaro pubblico, e a tal fine cercando protezione di magistrati che possano paralizzare, nascondere, inquinare, archiviare, in cambio ricevendo avanzamenti di carriera e potenza, e infinitamente così, i magistrati assolvendo i criminali che danno i miliardi ai banchieri, che a loro volta procurano voti per gli uomini politici, che a loro volta decidono le opere pubbliche e gli avanzamenti di carriera… Il grande gioco.
Tranne una minoranza di candidi imbecilli, che cercano sempre più stancamente di lottare in questa nazione, di conquistare la vita secondo merito, tutta questa società è fondata sul potere e basta, esso è la qualità umana dominante, non c’è niente di nobile, piacevole, dignitoso, ambito dall’uomo che possa realizzarsi fuori dal potere, né un appalto o un traffico di droga, né costruire ponti, ospedali, scuole, né diventare generali o procuratori. Questa è la società che per interesse o paura, inettitudine, ignoranza, stupidità, abbiamo consentito che si costruisse, una struttura dentro la quale un uomo per occupare il suo posto, secondo la sua smisurata o miserabile ambizione, voglia egli essere un professore d’università o un netturbino, primario d’ospedale o infermiere, proprietario di banche o pizzicagnolo, attore di teatro o giornalista di televisione, deve necessariamente stare dentro il potere, assoggettarsi a qualcuno ed esserne protetto, appartenere a una congrega, un partito, una corrente, una semplice associazione di leccaculo, e nemmeno questo è sufficiente, serve soltanto a legittimare la richiesta, poiché c’è poi da pagare la tangente, la tariffa, la percentuale, il prezzo della corruzione… La P2 venne eliminata solo perché in troppo brutale concorrenza: ma era soltanto il teorema di vertice di una norma contro la quale da trent’anni nessuno osa ormai ribellarsi…
Pausa di riposo per riprendere fiato.
Accasciati dentro la toga quasi rimpiccioliti di statura. E’ un trucco! Fa sempre un grande effetto simulare sfinimento, restare qualche secondo con gli occhi chiusi, magari mormorare qualche parola inintelligibile, la gente non capisce se avete perduto il filo del discorso e state per crollare, oppure state meditando un colpo di scena. Stanno tutti col fiato sospeso.
Di solito bisogna ricominciare con un grido stentoreo in modo da rimminchionire gli astanti (mi ricordo l’avvocato Albanese, mio maestro di arte penale, il quale usava così e i giudici si paralizzavano di colpo), oppure con una voce sommessa, parole lente e appena mormorate in modo che gli astanti trattengano il fiato, per capire, pensino «Ma che diavolo sta dicendo» e avete così il tempo, dolcemente, di dire cose terribili che restano agli atti…
Questa è dunque la società, questa la struttura civile, cioè l’abitudine mentale e politica e perché ciò possa modificarsi si dovrebbe distruggere questa civiltà. Non c’è altra soluzione: distruggere questa civiltà e crearne un’altra! Ci vorrebbe una guerra che lascia solo superstiti, così poveri, così impauriti da dover necessariamente inventare una società diversa da quella che li ha portati alla strage, oppure una rivoluzione per la quale metà della popolazione uccida senza pietà l’altra. E sicuramente, signori giudici, che siete lì appunto e soprattutto per garantire l’inviolabilità della vita umana, certamente non sperate in una tragica guerra, città rase al suolo, popolazioni sterminate, capolavori distrutti, né vi augurate certo una rivoluzione, la nazione insanguinata, i fratelli che uccidono i fratelli, e tutta questa terribile cosa solo per modificare questa società… Il fatto stesso che voi siete giudici e cercate di applicare la legge per proteggere e mantenere questa società, significa che ci state comodi, contenti e convinti…
Pausa malinconica. Un lieve singulto di riso come ad un pensiero che susciti irresistibilmente ilarità. La mano levata a indicare l’imputato, quattro o cinque passi attorno allo stesso, come fosse proprio lui a destare tale ilarità. Ma non è così.
A questo punto dentro questa società, un uomo, anzi un galantuomo nel senso letterale del termine, non l’individuo italiano che crede ai manifesti, ai programmi politici, alla pubblicità televisiva, ai programmi di governo, poiché quello è un perfetto minchione e, con permesso della corte, non lo prendiamo in considerazione… Voglio dire un uomo al quale attribuiamo un quoziente di intelligenza normale, e quindi anche di furbizia, e perciò rispetto per se stesso, amore per la vita… cosa fa un uomo per sopravvivere in questa società dove ogni azione o successo dipende dal potere che egli può esercitare, e quindi anche dalla forza, dal prestigio che riesce ad imporre…? Ci sono quelli che si rassegnano, già stanchi alla sola idea della ribellione, si intanano, si acquattano, accettano d’essere servi e clienti, subiscono sorridendo la prepotenza, pur di stare comodi al sicuro, s’esercitano alle arti di leccaculo… E voi non direte che questa sia la soluzione più dignitosa, non vorrete indurre questo mio cliente così altero, così indubbiamente intelligente, colto, sensibile, a rassegnarsi d’essere come quei vermi…? E invece ci sono quegli altri che si ribellano, non sanno trovare altra soluzione, la collera e la passione li travolgono, afferrano un’arma, una pistola, un Kalashnikov, un chilo di dinamite, e cominciano a sparare e menare strage, ammazzano i politicanti, i giudici, i giornalisti, nella illusione di cambiare, suggerire all’imputato la via del terrorismo e dell’omicidio! Infine ci sono quelli che semplicemente, civilmente, pensano: perché opporsi? Per difendere cosa, in nome di che, per conto di chi? Questa è la società nella quale mi è stato dato nascere, non l’ho organizzata io, non ho colpa, e poiché non ho l’animo dell’assassino, e però nemmeno quello dello schiavo, allora meglio stare dentro questa cosa, quanto più sorridente e sereno possibile, per capirne perfettamente le regole, applicarle e usufruirne. Il mio cliente ha scelto questa soluzione, mi inchino alla sua intelligenza. L’intelligenza è reato in regime tirannico, non certo in democrazia!
Fermo, immobile, la mano levata verso l’imputato Cavaliere, quasi a indicarlo all’ammirazione di tutti. Di scatto poi verso i giudici:
Voi dite che costui ha dato quantità di denaro ai politici, uomini di governo, assessori e forse ministri, per averne in cambio appalti pubblici, opere, contributi? E perché gliene fate colpa? Se non avesse dato quelle quantità di denaro avrebbe mai ottenuto quei giganteschi appalti, e memorabili opere, e favolosi contributi? Voi dite ch’egli ha pagato malandrini e criminali perché gli garantissero sicurezza e serenità nel suo lavoro e nei suoi cantieri? E che avrebbe dovuto fare? Rivolgersi a un inerme appuntato dei carabinieri o alle guardie notturne, e lasciare che le sue fabbriche fossero devastate, le sue aziende bruciate, le sua persona sequestrata? Avrebbe dovuto consegnarsi spontaneamente ai malfattori? Voi dite ancora che nelle sue banche ha riciclato il denaro infame della droga? Bella questa! Un banchiere deve fare il banchiere! Un banchiere deve incassare il denaro e reinvestirlo, utilizzarlo e concederlo a prestito, per lui le centomila lire dell’accattone sono identiche alle centomila lire del grande chirurgo! Questo vorrei vedere, che il banchiere si trasformasse in poliziotto con tutti i clienti: chi le ha dato queste centomila lire, voglio le prove! Tutto quello che accade in questa nazione passa attraverso le banche, finanziano i giornali, industrie, partiti, associazioni, uomini politici, le banche sono padrone di questa nazione, non può accadere niente senza le banche, anche la Fiat si fermerebbe!
E a questo punto immagino un sorriso di misteriosa benevolenza e dei passi lenti verso l’imputato fissandolo bene negli occhi, sempre con quel sorriso, come a dire: tranquillo Cavaliere, li abbiamo nel pugno. E infatti, volgendosi alla corte con un tono morbidissimo:
Eccellenza presidente e illustrissimi signori della corte, gentili cittadini che ascoltate con tanta attenzione ed ai quali è giusto che anche mi rivolga, essendoché la giustizia si fa in nome del popolo, consentitemi un breve, illuminante apologo finanziario. Prendiamo una grande somma di denaro, poniamo seimila miliardi, cioè sei milioni di milioni, e mettiamola a disposizione di un grande ente pubblico, per esempio la Regione siciliana, che ha responsabilità d’amministrare politicamente cinque milioni di persone. Seimila miliardi suddivisi in sei esercizi finanziari, consentono una disponibilità di spesa di mille miliardi l’anno. Orbene, poiché il costo medio del lavoro per un operaio, un buon operaio qualificato, è di circa quindici milioni l’anno, si avrebbe la fantastica possibilità di garantire lavoro di alta dignità ed eccellente remunerazione a ben sessantaseimilacinquecentosessantasei cittadini siciliani attualmente disoccupati, il lavoro dei quali, a sua volta, consentirebbe di costruire in Sicilia opere pubbliche fondamentali, la cui mancanza relega questa nobile regione al rango di terzo mondo coloniale, cioè bacini idrici e dighe per l’irrigazione delle terre, nuove strade e autostrade, grandi ospedali moderni, impianti sportivi e turistici in ogni parte dell’isola, e tutto questo per sei anni consecutivi, trasformando prodigiosamente il volto della regione e salvando dalla miseria, dalla emigrazione e dalla dilagante vocazione criminale gran parte di quei fratelli siciliani, la cui disperazione ammorba tragicamente la vita sociale…
Nuovo sorriso amabile ai giudici, che si presume intanto stiano immobili a bocca aperta, e identico sorriso anche all’imputato, per significargli:
Cavaliere, ascolta, poiché per te questa dovrebbe essere poesia.
Gesto bizzarro in aria, quei geroglifici, che non significano niente e possono significare tutto:
E c’è di più, miei rispettabili amici! Consentitemi di chiamarvi così poiché, sia pur cortesemente lottando, siamo qui tutti insieme per un unico scopo che è quello di far giustizia. Quei settantamila disoccupati e poveri cristi, per la maggior parte giovani, che potrebbero trovare finalmente un buon salario e una sicura dignità civile, non percepirebbero più ovviamente il sussidio di disoccupazione, poniamo trecentomila lire mensili a testa, che per settantamila, farebbero ventuno miliardi al mese, cioè duecentocinquanta miliardi l’anno, millecinquecento miliardi in sei anni, con i quali si potrebbero risolvere un’infinità di altri piccoli, maligni problemi, che avvelenano centinaia di comuni. E alla peggio costruire a Catania e Palermo i due più moderni stadi polisportivi di tutta Europa, risparmiandoci la vergogna d’essere considerati, come ora siamo, peggio del più miserabile paese della più nera Africa…
E qui, come direbbe Victor Hugo, avviene la folgore, l’inatteso, l’impensabile.
Silenzio assoluto. Tutti infatti pensano: «Bello! Ma quei seimila miliardi però non ci sono!» E la rivelazione li annienta:
Ebbene, nei sotterranei di alcune grandi banche siciliane, sono congelati ben seimila miliardi di residui passivi della Regione, cioè avanzi di bilancio e somme che la stessa Regione, dice per mancanza di progetti, dice per errori e ritardi burocratici, non è riuscita a spendere. E allora signori giudici, che avete fatto trascinare qui in catene codesto uomo, sol perché candidamente accetta nei suoi piccoli forzieri privati denaro proveniente talvolta da crimini, contrabbandi, sequestri, quale reato vorrete imputare alle grandi banche, e naturalmente ai governanti della Regione, per questa follia, questa demenza politica, questo incredibile crimine di sottrarre seimila miliardi al bisogno, alla fame, alla disperazione, alla infelicità, al dolore, al diritto umano… diritto, signor presidente, diritto perdio… di un’infinità di siciliani che, dal giusto impiego di quel denaro, potrebbero finalmente trovare salvezza per le loro vite… e lasciare invece che quelle montagne di denaro putrefacciano nei sotterranei delle banche… E questa infame cosa che a sua volta provoca un allucinante fenomeno…
Pausa. Un grido ancora più alto:
Un allucinante fenomeno, che la vostra intelligenza di giudici e cittadini, ha sicuramente, fulmineamente colto, e cioè che, mentre per l’ente pubblico quella immobile montagna di denaro viene continuamente erosa e dilapidata dalla svalutazione, per le banche che invece continuamente, febbrilmente possono impiegare, prestare, investire, quelle montagne di denaro producono ininterrottamente altre piccole montagne di denaro, riproducendosi a guisa di conigli…
Silenzio, stanchezza.
Prendere dal tavolo il fascicolo processuale e ributtarlo sul tavolo.
Sguardo ai giudici, impercettibile, sorriso amaro.
Imminenza di terribile collera e tuttavia voce sommessa e triste in modo che tutti debbano allungare il collo per ascoltare:
E voi mi portate qui, schiacciato dalla tremenda accusa d’essere mafioso, quest’uomo il quale si comporta come tutti gli altri si comportano in questa nazione, come la società lo obbliga a comportarsi, e che ha solo la colpa d’essere ricco e cavaliere…
Levare lentamente il pugno in aria, vibrandolo, senza tuttavia profferire parole. E’ un gesto molto teatrale, quasi terrificante:
«Io voglio affidare questa mia arringa al cittadino, al popolo in nome del quale si fa giustizia, concludendola infine con una domanda. Se veramente ritenete che questo imputato abbia offeso la legge, se davvero egli è quel mostro, quel tiranno, quel demonio, quel mafioso indicato dall’accusa, volete spiegarmi perché mai tutta la gente si tolga il cappello dinnanzi a lui, e al suo cospetto stia sempre un po’ curva in un inchino, con un sorriso gratificato, e quando lui dice una battuta, tutti assentono gravemente, e quando scherza tutti ridono: non soltanto le persone a lui devote, servi, dipendenti, impiegati, amici, clienti, ma anche avversari, persino i nemici politici. Ditemi: se egli è davvero quell’infame mafioso, che ha predato denaro pubblico, e magari fatto ammazzare i suoi rivali e persecutori… può essere, può essere, chi dice di no…? Allora perché presidenti di regione, assessori, sindaci, deputati, talvolta anche prefetti, anche questori, persino alti magistrati, persino ministri, si accompagnano a lui nelle cerimonie ufficiali, inaugurano le sue grandi aziende, contraccambiano gli auguri di Pasqua? E quando egli cammina per strada, o sale le scale d’un pubblico palazzo, o parcheggia la macchina, anche il vigile urbano, l’usciere, il posteggiatore, anche l’umile sconosciuto galantuomo, che nulla può da lui pretendere o temere, saluta gentilmente; ossequi, comandi, buongiorno, baciolemani. Spiegatemi. Osate davvero pensare che tutti gli uomini di questa città siano così pusillanimi, miserabili e leccaculo, e tutti corrotti o disponibili alla corruzione, uomini di grande prestigio, altissimi funzionari che amministrano la vostra vita, magistrati ai quali affidate la vostra libertà e i vostri beni, uomini politici che vi rappresentano nel parlamento, ai quali avete delegato il compito di studiare le leggi, e che voi stessi avete eletto con il vostro voto. Davvero osate pensare questo? E come mai non avete il coraggio di affermarlo, e dinnanzi a loro vi cacate sotto, e continuate a vivere nel vostro buco come sorci, e continuate a votare sempre per gli stessi uomini politici…? Ecco, se volete veramente condannare quest’uomo, dovete avere prima il coraggio, anzi la dignità di venire avanti e spiegare – perdonate il termine, ma è perfetto – andare in giro per le strade e le piazze a scrivere sui muri: Io sono uno stronzo!
Ruffianeria finale, volgendosi alla corte:
Quest’ultima frase a voce stentorea, scandendo bene le sillabe, in modo che il concetto appaia esemplare e indimenticabile.
«Eccellentissimi, io vi chiedo perdono, forse voi appartenete a quella tale minoranza di imbecilli di questa nazione, i quali ancora lottano e credono che nella vita ogni uomo si possa affermare il suo reale merito, e che ci sia un ideale morale di vivere. In tale ipotesi, chiedendovi di assolvere il qui presente cavaliere, io vi chiedo sinceramente perdono!
Un inchino, la vecchia toga tenuta dolcemente fra due dita e così, adagio, depositata al centro dell’aula, sul pavimento.
GLI INVULNERABILI
Gli invulnerabili
da “I Siciliani”, novembre 1983
Anteprima dell’«Ultima violenza», nella sala ci sono tutti i rappresentanti del potere nel territorio, i buoni e i cattivi, i giusti e gli iniqui, i galantuomini e i mascalzoni.
Sulla scena per tre ore sfilano i personaggi equivalenti. Che abbiano autentico vigore drammatico e bellezza teatrale, non ha qui importanza. Sfilano!
Al termine delle tre ore Turi Ferro, splendido avvocato Bellocampo, ha un ultimo guizzo drammatico, sulle sue parole spara la musica del Dies Irae, il pavimento del teatro sembra incendiarsi di bagliori, si alza lentamente e su questo declivio rotola il cadavere insanguinato del terrorista Sanfelice, ucciso pochi attimi avanti, prima che potesse rivelare il nome dei grandi assassini mafiosi.
E’ come se il teatro, compiuta la sua rappresentazione, gettasse quel corpo incontro al pubblico, quasi per restuirglielo; infatti quel pavimento è di metallo, una specie di immenso specchio nel quale gli spettatori della sala vedono se stessi plaudenti.
Ovazione finale, gli attori vengono avanti per ringraziare;
viene avanti il cavaliere del lavoro Lamante, che ha saccheggiato la società e alla cui ricchezza sono state sacrificate centinaia di vite umane, clap-clap, applausi vigorosi, applaude contegnoso anche l’autentico cavaliere del lavoro che sta in sala.
Ecco l’imprenditore Marullo, inteso Palummo ‘e notte , imprenditore che monopolizza tutti gli appalti della regione, e per tale monopolio ha fatto eliminare i concorrenti a raffiche di mitra, clap-clap, applausi anche dall’imprenditore d’assalto che sta in sala e guardando la sua immagine nello specchio sembra quasi divertito.
Bravo, bene! Cla-clap-clap, viene avanti il senatore Calaciura, tre volte parlamentare, ex ministro, sfiorato da una candidatura al Quirinale, sommo manipolatore di alleanze, complicità, miliardi di pubblico denaro e qualche assassinio, e in sala applaudono tutti, galantuomini e ribaldi. Complimenti, bis!
Eccolo: quell’attore che si presenta con un inchino è il Procuratore Generale della corte di giustizia, gli hanno dato una legge e lui l’ha applicata, senza mai pensare per un attimo che potesse costituire un’infamia. Uragano di applausi. Bravissimo!
I magistrati presenti applaudono.
Il clima morale della società è questo. Il potere si è isolato da tutto, si è collocato in una dimensione nella quale tutto quello che accade fuori, nella nazione reale, non lo tocca più e nemmeno lo offende, né accuse, né denunce, dolori, disperazioni, rivolte. Egli sta là, giornali, spettacoli, cinema, requisitorie passano senza far male: politici, cavalieri, imprenditori, giudici applaudono. I giusti e gli iniqui.
Tutto sommato questi ultimi sono probabilmente convinti d’essere oramai invulnerabili.1414
UN UOMO
Un uomo
da “I Siciliani”, gennaio 1984
Pippo Fava ha scritto un sacco di libri, e cose di teatro anche.
Però Pippo Fava non è mica uno importante.
Per esempio, arriva una centoventiquattro scassata, dalla centoventiquattro esce uno con la faccia da saraceno e un’Esportazione che gli pende da un angolo della bocca e ride e quello è Pippo Fava.
Bene, un giorno a Pippo Fava gli dicono di fare un giornale, è una faccenda strana affidare un giornale a Fava che, dice la gente perbene, è uno che non si sa mai che scherzi ti combina: comunque il giornale c’è, si chiama il Giornale del Sud e subito Pippo Fava lo riempie di ragazzi senza molta carriera ma in compenso mezzi matti come lui.
«Tu, come ti chiami?». «Così e cosà». «E cosa vorresti fare?».
«Mah, politica estera…». «Ok, cronaca nera».
La cronaca, al Giornale del Sud, la si fa all’avventura.
Non si conosce nessuno, si parte proprio da zero. Ci sono storie divertenti, tipo quella del povero emarginato napoletano che arriva in redazione e tutti fanno i pezzi commoventi sul povero emarginato e poi arriva Lizzio dalla questura per un paio di stupri…
Si chiude alle tre di notte; non si “buca” una notizia.
Con grande stupore, i catanesi apprendono che a Catania c’è una cosa che si chiama mafia. E che Catania è divenuta un centro del traffico di droga.
Dopo qualche mese, un attentato: un chilo di tritolo. Ma si va avanti.
La faccenda dura un anno. Poi succedono tre cose.
La prima è che gli americani decidono che la Sicilia va bene per coltivarci missili.
E questo a Fava non va bene, e lo scrive.
La seconda che a Milano acchiappano un grosso mafioso, Ferlito, parente di un assessore e uomo di molto rispetto;
e anche qua, Fava si comporta piuttosto – come dire – maleducatamente.
La terza è che nella proprietà del giornale arrivano amici nuovi, uno dei quali è…
– ok, avvocato, niente nomi –
… un importante imprenditore catanese coinvolto nel caso Sindona e un altro un importante politico catanese coinvolto nell’assessorato all’agricoltura.
Telegramma all’illustrissimo dottor Fava:
«Comunichiamo con rincrescimento a vossignoria illustrissima che il giornale ora ha un altro direttore».
I matti, i ragazzi della redazione vogliamo dire, occupano il giornale. L’occupazione dura una settimana, durante la quale gli occupanti ricevono la solidarietà di alcuni tipografi, di una telefonista, di un guardiano notturno e di un ragazzino dell’Ansa (a pensarci, anche un giornalista ha telefonato, allora). Poi arriva il sindacato e, molto ragionevolmente, l’occupazione finisce.
Senza Fava finisce anche, e alla svelta, il Giornale del Sud (perché non-leggere le stesse notizie su un giornale nuovo, se puoi già non-leggerle su quello vecchio?).
Ma Fava nel frattempo non s’è stato con le mani in mano. Ha raccolto una decina dei “suoi” matti: «Si fa un giornale».
Come, quando e se si farà non lo sa nessuno.
Ma intanto si mette su una bella redazione, con le sue brave “lettera ventidue” scassate.
Chi è disposto a investire qualche centinaio di milioni su due “lettera ventidue” scassate, dieci matti fra i venti e i venticinque anni e uno di sessanta? Ovviamente, nessuno.
D’altra parte dopo l’esperienza del GdS Fava e i suoi, a sentir parlare di padroni, si mettono a bestemmiare.
Allora si mette su una bella cooperativa – «Radar!». «E che vuol dire?».
«Suona bene!» – si disegna un bellissimo stemmino per la cooperativa e si firmano alcune tonnellate di cambiali.
Due mesi dopo arrivano due bellissime Roland di seconda mano, offset bicolori settanta/cento, e Fava se le cova con lo sguardo che se invece di essere due offset fossero due turiste svedesi lo denuncerebbero per stupro.
A fine novembre, Pippo Fava arriva in redazione, schiaccia l’Esportazione nel portacenere e fa:
«Ragazzi, si fa il giornale». «Quando?» «Con quali soldi?»
«Io faccio il pezzo sulla Procura!» «Come lo chiamiamo?» «Io ho un’idea per il pezzo di colore» «Ma i soldi…».
La vigilia di Natale, le Roland sputano una cosa rettangolare con scritto su
«I Siciliani».
Anno uno, numero uno, i cavalieri di Catania e la mafia, la donna e l’amore nel sud. Un tipografo porta il pupo in redazione. «Be’, potrebbe anche andare» fa uno dei redattori con nonchalance, e subito dopo si mette a ballare.
Il giornale arriva in edicola alle nove di mattina.
A mezzogiorno non ce n’è più (a piazza della Guardia, dicono, due fanno a cazzotti per l’ultima copia: ma onestamente non ne abbiamo le prove). Si brinda nei bicchieri di plastica, e si prepara il numero due; nel cassetto i mazzi di cambiali sembrano meno minacciosi.
Ed è passato un anno. La mafia, a Catania, c’è o non c’è?
«Ma no… al massimo un po’ di delinquenza…» (il signor Prefetto).
«Cristo se c’è! E sbrigatevi a fare qualcosa che qui finisce peggio di Napoli» (I Siciliani).
E quel signore, come si chiama quel signore là?
«Noto pregiudicato…» (la stampa per bene).
«Santapaola Benedetto, detto Nitto, MAFIOSO!» (I Siciliani).
E i missili, dite un po’, vi dispiace se lascio un paio di missili nel sottoscala? «Ma prego, si figuri, come fosse a casa sua!».
«Ahò! Ca quali méssili e méssili! I cutiddati a’ casa vostra, si vvi l’aviti a ddàri!»
E i cavalieri, vediamo un po’; anzi, i Cavalieri?
«Ecco dunque cioè nella misura in cui ma però… AIUTO diffamano Catania!»
«I cavalieri catanesi alla conquista di Palermo con la tolleranza della mafia.
Firmato Dalla Chiesa. Noi stiamo con Dalla Chiesa».
Ed è passato un anno.
C’è un ragazzino, a Montepò, che ancora non sa bene se andrà a fare il suo primo scippo o no. C’è una vecchia, in via della Concordia, che è rimasta fuori dall’ospedale perché non c’era posto. C’è una tizia, a viale Regione Siciliana, che costa ventimila lire ed ha quattordici anni. C’è un manovale, alla zona industriale, che ci ha rimesso una mano e dicono che la colpa è sua. C’è uno sbirro, in viale Giafaar, che ha una bambina a casa ma va di pattuglia lo stesso. C’è una bambina, da qualche parte allo Zen, che forse diventerà una puttana e forse una donna felice.
E c’è un’altra bambina, in un cortile pieno di sole, e ora Pippo Fava prende in braccio la bambina e la bambina ride.
«Nonno, nonno, ora faccio l’attrice».
«Qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare, perdìo. Tanto, lo sai come finisce una volta o l’altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa…
Beh, te lo prendi un caffé? E l’occhiello, vedi che dieci righe per un occhiello a una colonna sono troppe».
Forse mezzo milione, forse di più: il tizio, con l’altro tizio e quello che doveva dare il segnale, era là ad aspettare e ha alzato la 7,65 e ha sparato. Professionale.
Certo, in una villa di Catania, s’è brindato, quella notte.
Forse ha avuto il tempo di guardarlo negli occhi. Non pensiamo spaventato.
Forse, impietosito. Sapendo benissimo che il tizio pagato – uscito forse da un miserabile quartiere, uno di quelli che lui non era riuscito a salvare – sparava anche contro se stesso, contro la propria eventuale speranza.
Forse ha pensato che un giorno o l’altro quelli che venivano dopo di lui ci sarebbero riusciti a farli smettere di sparare, a…
Ma forse non gliene hanno dato il tempo.
***
E questo è tutto.
Ok, ringraziamo tutti quanti, grazie di cuore a tutti.
Adesso dobbiamo ricominciare a lavorare, c’è ancora un sacco di lavoro da fare per i prossimi dieci anni.
Mica possiamo tirarci indietro con la scusa che è morto uno di noi.
Se qualcuno vuole dare una mano ok, è il benvenuto, altrimenti facciamo da soli,
tanto per cambiare.
Va bene così, direttore?
Elena Brancati, Cettina Centamore, Santo Cultrera, Claudio Fava, Agrippino Gagliano, Miki Gambino, Giovanni Iozzia, Rosario Lanza, Nanni Maione, Riccardo Orioles, Nello Pappalardo, Tiziana Pizzo, Giovanna Quasimodo, Antonio Roccuzzo, Fabio Tracuzzi, Lillo Venezia.
FUNERALI DI STATO. MIO PADRE SORRISE
«Chissà perché…»
Nella misura in cui, disse più tardi il sindaco, in municipio, accanto alla bara.
Nella misura in cui, disse il sindaco, ed il Nabucco arrivò all’ultima strofa.
A me sembrò un po’ banale, quella prima lezione di mestiere.